L’Italia conta parecchi “interessi” nel paese dei cedri: secondo partner commerciale del Libano, e primo a livello europeo, con partecipazioni in settori chiave come quello degli idrocarburi, della chimica, della meccanica pesante, delle costruzioni e della moda. Per non dire del forte contributo alla missione delle Nazioni Unite Unifil per la quarta volta sotto il nostro comando.
Ma sarebbe polemica provinciale chiedersi dove fossero i nostri leader mentre il presidente francese Macron e il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel visitavano Beirut dopo la devastante esplosione del 4 agosto. Diamo per buona “l’interpretazione” che, in via ufficiosa, filtra dal nostro Ministero degli Esteri: “è irrispettoso, dopo la discesa in campo in modo così forte e personale di un capo di stato, che un’altro leader rifaccia la stessa scelta“.
Non è però irrispettoso porre qualche domanda, anche alla luce della volontà italiana di partecipare alla ricostruzione di Beirut, all’impegno già in atto di molte nostre ong e dei 33 milioni di euro stanziati dall’Unione Europea.
“Non lasceremo la piazza fino a quando avremo vinto“. La frase di un manifestante è stata riportata da tutti i media mondiali. E lo speaker della manifestazione di martedì 11 agosto, in ricordo delle vittime a una settimana esatta dall’esplosione al porto, gli ha fatto eco: “Noi non ci fermiamo per le dimissioni del governo. E’ tutto il sistema che dovrà crollare“. Parole che colgono uno stato d’animo, ma che non sembrano sufficienti leggendo quello che scrive sull’Orient-Le Jour Emilie Seur nel suo editoriale del dieci agosto: “Questo sistema , per quanto marcio, è fortemente solido, terribilmente resistente e inerte.” Il suo appello alle forze di opposizione è poi subissato da commenti che denunciano la compromissione della stessa opposizione nel “clientelare mafioso” sistema di potere.
Ventiquattro ore dopo, come se il giornale della comunità francofona libanese, fra i più liberal ed indipendenti del mondo arabo, secondo la rete giornalistica dell’Unione Europea, dovesse pesare le parole gli risponde indirettamente Michel Touma: “La priorità oggi deve essere la realizzazione di un profondo cambiamento nella gestione degli affari pubblici, piuttosto che un tentativo fantasioso di mettere in discussione il sistema politico nel suo complesso.”
Paura del salto nel vuoto? Forse. Interesse che tutto cambi per non cambiare nulla? Può darsi. E’ certo che la posizione di Touma, fuori dalla piazza, ha molti sponsor, a partire dal Presidente Michel Aoun: il potere in Libano deve rimanere espressione di un sistema di divisione fra le comunità confessionali e le famiglie che le rappresentano. Alle loro spalle i padrini esterni: Damasco, Teheran, Riad. Potremmo aggiungerne molti: gli Stati Uniti, in fase di disimpegno; la Francia, alla ricerca di un nuovo protagonismo mediterraneo che la porta a cozzare con la Turchia, la stessa Turchia di Erdogan per finire con l’Egitto. Ma fermiamoci qua.
Le dimissioni del governo libanese e la corsa ad elezioni anticipate hanno questo obiettivo: tutto nuovo ma tutto identico.
Come potrebbe essere diverso se il metodo elettorale adottato rimane quello stabilito nel 1943 detto “Patto nazionale“? Il metodo prevede che il Presidente della Repubblica sia cristiano maronita, il primo ministro sunnita e il presidente del parlamento sciita. I seggi attribuiti su base territoriale e confessionale, con la prevalenza della seconda. Una variazione apportata con gli accordi di Tarif del 1989 facendo in modo che il numero dei deputati dei partiti cristiani fosse identico a quello dei deputati dei partiti musulmani: 64 a testa.
“Il problema, scrive Alberto Negri sul Manifesto, è che il Libano, con 18 comunità religiose tra cristiani e musulmani, vive uno straordinario e formidabile equivoco: chi sono e quanti sono i libanesi? Nessuno lo sa. Cento anni fa, proprio a Sanremo, la Società delle Nazioni affidò la Grande Siria, comprese le cinque province che oggi costituiscono il Libano, al controllo della Francia. All’indipendenza si arrivò nel 1943 quando la Francia era occupata dalla Germania nazista con una spartizione del potere basata sul censimento del 1933, l’ultimo in assoluto che si è mai svolto in Libano. Da allora i libanesi non si sono mai più contati.” Cioè è quasi impossibile definire oggi se le “il manuale Cencelli libanese” risponde almeno a verità.
Per lo meno è sempre più difficile catalogare in quel manuale le migliaia di manifestanti, e in modo prorompente negli ultimi giorni, che dall’autunno scendono in piazza a protestare. A chiedere che il Libano si emancipi dalle divisioni confessionali e di clan.
Prima della necessaria ricostruzione servirebbe una assemblea costituente che sciolga tutti questi nodi. Ma il solo nominarla rischia di essere esplosivo. Come dire che in Bosnia si deve andare oltre i trattati di Dayton.
Si è, invece, preferito, fino al 18 agosto ma rinnovabile, decretare lo stato di emergenza dando un ampio mandato all’esercito di controllare direttamente l’ordine pubblico (libertà di stampa e di manifestazione, assembramenti all’aperto), di effettuare perquisizioni e fermi, fino all’espulsione di stranieri indesiderati, senza nessun vincolo della magistratura, per finire con l’indizione del copri fuoco. Delle preoccupazioni per la tenuta democratica delle istituzioni si è fatta carico l’avvocato e presidente dell’associazione “Legal Agenda Ghida Frangieh.
Gabriele Iacovino, direttore del Centro studi internazionale (Ce.SI), fa sua la preoccupazione della signora Frangieh: “Nella regione, in molti casi l’esercito si è fatto paladino della stabilità, degli interessi della popolazione (vedi Egitto). Per lungo tempo, le Forze armate libanesi hanno rispecchiato gli equilibri nazionali. Negli ultimi anni, però, la componente sciita è aumentata considerevolmente. Non sappiamo, quindi, come si comporterebbe l’esercito nel caso di un riesplodere della violenza settaria nel Paese. Questa è una delle tante incognite nella crisi libanese.”
Per concludere questa panoramica una interessantissima riflessione del professore Francesco Mazzucottelli dell’Università di Pavia, esposta in un post pubblico: “Per farla breve, il confessionalismo in Libano non è un problema di far andare d’accordo il prete con l’imam, i quali peraltro sono già capacissimi di andare d’accordo per conto loro. Il problema è che non puoi mettere in discussione il confessionalismo senza mettere in discussione il capitalismo, o quanto meno le grandi disuguaglianze sociali ed economiche, la dipendenza tra centro e periferie, e non ultimo il castello di torbidi interessi legati al meccanismo del segreto bancario.“
E se il professor Mazzucotelli ci avesse preso?
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Non ci sono più cedri in Libano
Chi non ricorda la foto di Massimo D’Alema in visita alle rovine di Beirut sud dopo i bombardamenti israeliani sotto braccio al deputato di Hezbollah Haji Hassan? Era il 15 agosto del 2006, D’alema da poco ministro degli esteri del governo Prodi si recò a Beirut “imponendo” un protagonismo del nostro paese, probabilmente già concordato con Condoleeza Rice, segretario di Stato, nel suo viaggio di giugno negli Usa.
Fu uno dei successi della nostra diplomazia. Ma si sa altri tempi e, soprattutto, altra “statura” dei personaggi in campo.