New Amsterdam

Il medical drama New Amsterdam giunge alla conclusione: come posso aiutare?

22/01/2023 di Ambrosia J. S. Imbornone

Terminata negli USA dopo cinque stagioni una serie tv con un ottimo cast e un protagonista sopra le righe, generoso e idealista, che lotta contro un sistema ingiusto e contro ogni forma di discriminazione. Il medical drama ha affrontato, così, molti argomenti sociali importanti e acceso i riflettori su tante sfaccettature e contraddizioni della società americana. 

Si è concluso da pochi giorni in America il medical drama New Amsterdam, ideato da David Schulner e ispirato al libro Patients: Life and Death at Bellevue Hospital di Eric Manheimer, per oltre 15 anni direttore sanitario dell’ospedale Bellevue, fondato nel 1736 a New York e quindi il più antico ospedale pubblico statunitense. Il suo ospedale nella serie si chiama appunto New Amsterdam e il nome del suo personaggio è diventato Max Goodwin, interpretato in modo eccellente dal trentottenne Ryan Eggold (Lovesong, The Black List, The Black List: Redemption; ha interpretato anche il personaggio di John in Padri e figlie di Gabriele Muccino, 2015).

La serie è stata trasmessa negli States dalla NBC dal 25 settembre 2018 per cinque stagioni, mentre in Italia è trasmessa da Canale 5: su Mediaset Infinity si può rivedere la quarta stagione, in attesa che sia mandata in onda la quinta, mentre le prime due stagioni sono attualmente su Netflix.

Si tratta di una serie tv che ha consentito e consente di riflettere su molti argomenti di attualità e con una grande attenzione al sociale: ovviamente in primis offre spunti utili sulla sanità americana, poiché il focus non sono tanto le vicende private dei personaggi intrecciate a quelle dei pazienti del giorni, ma l’altruismo e l’idealismo di Goodwin, che si ritrova in un ospedale in declino e a corto di fondi, l’unico che si occupi anche dei prigionieri del carcere di Rikers Island, e cerca di rivoluzionarlo non pensando al profitto, ma puntando sempre sul benessere dei pazienti. La domanda che ogni medico dovrebbe porsi ogni giorno è infatti secondo lui “Come posso aiutare?” (“How can I help?”), che diventa il tormentone di Max e della sua squadra e quindi il fil rouge delle puntate e delle stagioni: sono parole che possono sembrare scontate, ma in un sistema sanitario come quello statunitense implicano davvero considerarsi al servizio di ogni paziente e cercare di aiutarlo, spogliandosi dell’aura del professionista inarrivabile, concentrato solo sulla propria carriera. Come è noto, negli Stati Uniti non esiste un vero e proprio sistema di assicurazione sanitaria locale; esiste un sistema pubblico, diviso in due programmi, Medicaid e Medicare, ma è riservato solo ad alcune categorie specifiche di cittadini, ovvero rispettivamente le persone e le famiglie bisognose, nel primo caso, e gli individui con età superiore ai 65 anni e i disabili, nel secondo caso. Questi piani assicurativi comunque non coprono qualunque tipo di spesa medica, ma solo alcuni servizi; inoltre, il resto della popolazione può solo rivolgersi ad assicurazioni private, che tanti non possono permettersi, restando scoperti, non essendo così poveri da rientrare nel programma Medicaid. Agli ospedali pubblici si può avere accesso anche senza copertura assicurativa, ma vi sono comunque delle spese da pagare, che possono essere solo rateizzate.



Insomma, Goodwin si deve spesso scontrare con le situazioni economiche precarie dei suoi pazienti, con il budget dell’ospedale che non basta mai per tutte le esigenze dei vari reparti, con tagli che non vuole e non sa fare e con la ricerca di soluzioni spesso fantasiose e improbabili, che lo portano spesso a discutere con la presidente del consiglio dell’ospedale, Karen Brantley, interpretata da un nome “storico” come Debra Monk (I ponti di Madison County, Il club delle prime mogli, In & Out, L’avvocato del diavolo, NYPD, Grey’s Anatomy, Mozart in the Jungle, The Gilded Age, solo per fare qualche nome), che però in fondo ammira, stima e vuole bene a Max, nonostante a volte la metta in seria difficoltà.

Nella quarta stagione, d’altronde, i metodi di Goodwin sono completamente ribaltati dalla cinica Veronica Fuentes (Michelle Forbes, ad es. vista in Homicide, The Fighter – Il massacro, Prison Break, In Treatment, Durham Conty, The Killing, ecc.), chiamata a risanare i conti dell’ospedale al posto del direttore sanitario, momentaneamente trasferitosi in Inghilterra. Interessi privati, tagli che mettono a repentaglio i reparti e condizioni di lavoro insostenibili portano alla fine a un grande sciopero degli inservienti, di cui si sottolinea il ruolo, talora sottovalutato, ma assolutamente fondamentale: se fallisce la “rivoluzione” dei camici bianchi, progettata dall’alto, è grazie a un movimento dal basso che Fuentes viene costretta alle dimissioni.

Il personaggio di Max infatti può sembrare troppo idealizzato e poco realistico (e spesso è stato criticato come tale), ma la verità è che spesso i suoi piani appaiono velleitari e confusi, per cui non possono che fallire, il suo attaccamento al lavoro compromette spesso la sua vita privata (prima con la moglie Georgia, interpretata da Lisa O'Hara, poi con un altro personaggio-chiave per quattro stagioni, l’oncologa-star televisiva delle raccolte fondi, Helen Sharpe, interpretata dall’attrice britannica, di origini ghanesi e iraniane Freema Agyeman, già in Doctor Who, Torchwood, Law & Order: UK, ecc.) e i suoi ideali di sognatore devono spesso misurarsi con la realtà. Tuttavia il segreto di Goodwin e del New Amsterdam è proprio nel gioco di squadra, per cui ci si immedesima nei panni degli altri e si cerca di agire insieme, di contribuire alle cause insieme, per risolvere insieme problemi dei pazienti e della struttura pubblica. È l’unione che fa la forza, è l’inclusione che fa la differenza: in questi anni, infatti, la serie tv ha affrontato con costanza il tema della discriminazione, in ogni sua forma. Innanzitutto, meritoria, per eliminare lo stigma sulla malattia mentale, è l’azione paziente dello psichiatra Ignatius “Iggy” Frome, interpretato dal canadese Tyler Labine (Breaker High, Invasion, Deadbeat, Reaper – In missione del Diavolo, ecc.), uno dei personaggi più originali e simpatici del medical drama: affetto lui stesso da problemi nella gestione del cibo, ha conosciuto il disprezzo del padre, il bullismo e le discriminazioni per il suo peso e cura con metodi spesso fuori dal comune e con grande attenzione soprattutto bambini e adolescenti. Un punto di riferimento importante per l’ospedale, una figura che fa riflettere anche perché continua, stagione dopo stagione, a dover fare i conti anche con le proprie insicurezze e i propri errori e sa mettersi in discussione anche professionalmente, quando è necessario.

Inoltre, soprattutto nelle ultime due stagioni, ci si è interrogati su discriminazioni ed errori “storici” o attuali nei comportamenti e nella gestione di medici e pazienti: si è passati da riflessioni sugli esperimenti novecenteschi sugli afroamericani (simili a quelli eclatanti per la silifide messi in atto nel 1932 su centinaia di mezzadri afroamericani analfabeti, usati come cavie alla stregua degli animali da laboratorio) all’emarginazione dei nativi americani, che comincia con le origini di New York (la storia della metropoli iniziò proprio infatti con l’arrivo degli europei nel 1524 in un preesistente sito di nativi americani). Ancora, Max si rende conto di quello che il maschio medio bianco cishet mediamente benestante a volte proprio non capisce, cioè che non sta a lui stabilire se in effetti qualche categoria sia discriminata nella società e che bisogna invece ascoltare gli altri per sentire se dal loro punto di vista e nella loro esperienza quotidiana percepiscono forme di esclusione, derisione e ghettizzazione. Goodwin parla così con il suo personale, con medici e infermieri omosessuali o transessuali, neri, asiatici, ispanici o di altre etnie/origini, scoprendo che la realtà è ben diversa da quella che vede dal suo limitato osservatorio, in cui però capisce pure che sua figlia Luna che gioca in metro viene coccolata da tutti, al contrario dei bambini afroamericani su cui ascolta commenti infastiditi.



Si riflette su fenomeni di immigrazione recenti (compresa nell’ultima puntata una donna ucraina scappata dalla guerra) e storici, su amori interrazziali, non sempre felici, su differenze di status economico o su come si percepisce una relazione (con coppie aperte, ma che devono comunque interrogarsi sulla gelosia), su amori eterosessuali e omosessuali. Ancora, New Amsterdam ha trattato spesso argomenti come la dipendenza da farmaci, alcool e droga (che toccano da vicino la famiglia e la vita di un altro personaggio fondamentale e costante della serie, l’apparentemente risoluta e granitica Lauren Bloom, interpretata dall’inglese Janet Montgomery, che nasconde invece molte fragilità), oppure si è concentrato su temi drammatici come il cancro di Max o il drammatico fenomeno delle spose-bambine, che, osservato inaspettatamente da vicino anche nella “civilissima” America, sconvolge i personaggi della serie. Ancora, nelle ultime stagioni il medical drama ha acceso i riflettori sulla disabilità, come quella temporanea che affligge Helen a seguito di un grave ictus, che la rende incapace di parlare per un periodo, oppure quella permanente dell’oncologa che ne prende il posto, Elizabeth Wilder, affetta da sordità come l’attrice che la interpreta, la bravissima Sandra Mae Frank, che sarà finalmente in grado di comprendere l’attaccamento di Max al suo lavoro, la sua dolcezza e la sua etica professionale.

New Amsterdam insomma ha consentito di riflettere sulla sanità e sulla società americana, con tutte le sue sfaccettature e contraddizioni nascoste, con un protagonista sopra le righe, generoso e altruista, a cui non si può non volere bene, interpretato in modo sempre molto naturale, espressivo ed efficace, con un cast di ottimo livello (tra cui ricordiamo anche Jocko Sims, il chirurgo Floyd Reynolds, con i suoi solidi, inflessibili, valori, ma proprio per questo anche i suoi dubbi morali), con un finale in parte un po’ veloce, nonostante fosse noto da tempo che la quinta sarebbe stata l’ultima stagione: non si è mostrato agli spettatori come si è arrivati al lieto fine in alcuni casi, ma le ultime puntate hanno offerto spunti di riflessione profondi e non è mancato un colpo di scena commovente, per chi ha seguito tutte le vicende, anche tragiche e sempre travagliate, della vita di Max Goodwin. Mancheranno tutti i personaggi ai telespettatori, la loro amicizia, che lega temperamenti molto differenti, il loro affiatamento sul lavoro, dove tutti sono legati dall’aver condiviso lo spirito iconoclasta e magnanimo e ovviamente il motto del direttore sanitario, che chiude anche la serie per sempre: “Come posso aiutare?”.