Silvia Morganti e Laura Bianchi

RIMANDATA A SETTEMBRE- La scuola nella pandemia, fra distanza, promesse e speranze

15/07/2020 di Autori vari

Due docenti, dislocate geograficamente in aree diverse (ammesso e non concesso che la scuola presenti differenze significative in base alla loro geolocalizzazione), Silvia da Roma e Laura da Como,  ci trasmettono riflessioni ed emozioni sulla scuola in questo sciagurato 2020 al tempo del Covid-19.

« Buongiorno ragazzi. Com’è la scuola? ».  di Silvia MORGANTI

 

Riflessioni a margine sulla scuola dal di dentro, di chi la vive e raramente ne parla.

 

Andare a scuola Vivere la scuola giornalmente significa una dimensione e un orizzonte straordinari di conoscenza continua. Andare a scuola significa portare con sé carta, penna, libri e se si vuole il proprio pc o tablet, ma soprattutto un mondo nella testa, fatto di pensieri, di riflessioni e analisi, costellato di difficoltà e di gioia, di semplice quotidianità. Sia che tu sia insegnante o studente, sia che tua abbia cinquant’anni o sedici, quando varchi il portone sai dove ti trovi. Sono i passi che ti conducono all’edificio e poi quelli che ti riportano a casa, al ritorno, che stanno a testimoniare il cammino, la distanza e la vicinanza. Servono quei passi per metabolizzare quello che si va facendo. Un po’ come scrive Paul Auster in Diario d’inverno (Torino, Einaudi, 2012):

Per fare quello che fai hai bisogno di camminare. È camminare che ti porta le parole, che ti permette di sentire il ritmo delle parole mentre le scrivi nella tua mente. Un piede avanti, poi l’altro piede, il doppio battito di tamburo del tuo cuore. Due occhi, due orecchie, due braccia, due gambe, due piedi. Questo e poi quello. Quello, e poi questo.


Lo sa bene chi insegna quanto sia importante lasciar correre i pensieri, un passo dopo l’altro,  ripensare a quello che è successo (o non è successo) in classe, chiedersi perché  e analizzare il come: si aggiusta il tiro, ma si lascia anche decantare quanto accade, per poi ricucire giorno dopo giorno un puzzle complesso in cui trovano posto tutti i tasselli. È un processo, ma anche una scoperta continua; è una sfida che talvolta ti sfibra, ma spesso ti diverte, ti rende migliore, sempre più esperto, paziente e allo stesso tempo umano, quindi con pregi e difetti.

Dentro le mura dell’aula o nei corridoi si affacciano visi, ma soprattutto sguardi. Nello sguardo nasce tutto: fiducia, patto, accordo, disaccordo, broncio, soddisfazione, senso di vittoria o di sconfitta, disappunto, affetto, conoscenza, empatia, sottile ironia, bellezza… ecc. ecc.

Occorre forse esplicitare tutto questo? Non è forse chiaro a tutti? Chi ha frequentato la scuola ricorda cosa voglia dire “andare a scuola”?

Ognuno sa che ha imparato a leggere un testo, a risolvere un problema, a partecipare ad una partita di pallavolo, a dividere la merenda, a capire una parola… lì, tra quelle quattro mura. Alcuni hanno avuto aule spaziose, colorate, con grandi finestre (sul mondo esterno), una lim con pc, il poster del film visto al cinema appeso al muro, la cartina geografica del mondo; altri si sono dovuti accontentare di aule anguste, con i muri scritti a mano, senza lim e senza cancellino, con spazi stretti (forse non in sicurezza) e poco colorati; ma ciò non toglie l’importanza delle persone incontrate, delle esperienze avute e dei percorsi compiuti in quei luoghi.

Andare a scuola è l’arte dell’incontro. È un continuo dialogo, ascolto e parole: le parole riempiono l’aria continuamente e aleggiano a lungo, a volte per un tempo indeterminato. Entrano nelle orecchie per passare distratte o per prender dimora nella mente di chi le ascolta, ma anche talvolta di chi le pronuncia, perché il processo non è determinato a monte, avviene hic et nunc, prendendo strade diverse anche da quelle previste. Delle parole si impara a sentire il suono, la sillabazione, il tono; si passa poi a scriverle, fissarle, metterle in tasca in un biglietto o tra i libri come un segno. Si incomincia a dosarle, a sceglierle, non è escluso sbagliare, tornare indietro e cercare rimedio, cercando quelle giuste. A volte invece è meglio il silenzio.

 

Tutti parlano di scuola Ora stanno in tanti a parlar di scuola: giornalisti, pedagogisti, filosofi, scrittori, politici. Eppure c’è un silenzio vastissimo che è quello degli/delle insegnanti. Eppure sono loro a far la scuola giorno dopo giorno, molto più degli stessi presidi (se vogliamo dirla tutta), perché sono loro i detentori di quel dialogo continuo con gli studenti e le studentesse con cui quotidianamente entrano in classe e  – insieme – fanno la Scuola. In questi giorni però a causa del Covid-19,  la scuola suscita in molti (per lo più esterni all’istituzione scolastica) il desiderio di dare un parere, di giudicare, di tentare la via della trasformazione della didattica. La novità della virtualità (quella lontananza che per quanto ti avvicini rimane incolmabile) e, dunque, della DAD (Didattica a Distanza) sembra aver catalizzato l’attenzione: gli strumenti tecnologici messi in primo piano sembrano offuscare il significato/senso vero dell’andare a scuola.

Fa ridere e un po’ anche irritare lo slogan della RAI che “offre ogni giorno tre ore di scuola  la mattina tutti i giorni”, per proseguire poi con approfondimenti vari su tutti i canali e ad orari diversi: fa ridere perché è sciocco, senza senso. Stupisce come si possa parlar di scuola in quei termini. Si è grati naturalmente di una buona offerta televisiva, fatta di contenuti e di trasmissioni interessanti, ma rimane il fatto che si tratta di programmi televisivi non ‘scolastici’. La scuola è un’altra cosa, così come la didattica in presenza è un’altra cosa dalla DAD. Ci si dimentica che i protagonisti sono fatti di carne e di ossa, con un cervello pensante e la facoltà continua di parola. La voce a scuola si intreccia, è una comunicazione reciproca: capita naturalmente il momento che c’è chi parla e l’altro che prende appunti o semplicemente ascolta, ma si tratta di un lasso di tempo che prende corpo in uno spazio fisico e un tempo umano ricco di voci, movimenti, vita. La scuola non è mettersi davanti alla tv, così come non basta per crearla sedersi davanti o dietro una cattedra a seconda del ruolo che si riveste!  Il caso del maestro Manzi, se anche ancora commuove, andrebbe approfondito/contestualizzato e non solo citato.  E comunque la parola “scuola” non può più rimandare all’idea (televisiva) di una istituzione in cui la trasmissione del sapere avviene con un mittente che parla e un destinatario (piuttosto passivo) che apprende, anche perché non lo è mai stata probabilmente, neanche ai tempi dell’autoritarismo. Si ha il sospetto che questo possa trasformarsi in un avvallo alla didattica in classe registrata per chi segue da casa, come se la forma ibrida potesse essere neutra, indifferente e nemmeno troppo discutibile.

La pandemia I ragazzi e le ragazze, che si sono trovati a non gioire - forse per la prima volta – della chiusura della scuola il 5 marzo 2020, sono gli stessi che si sono rimboccati le maniche davanti ai computer, agli smartphone, ai tablet per capire come connettersi con la classe, con i propri professori, come usare i mezzi a disposizione per “fare lezione” e imparare (in molti casi) ad usarli veramente. Chiusi in casa, ognuno nella propria stanza o in sala da pranzo o in cucina (i più fortunati in giardino) hanno chiesto a se stessi o a chi poteva aiutarli come potersi reinventare studenti da una dimensione totalmente diversa.  Altro che accendere la tv con il telecomando! Insieme docenti e discenti hanno trasformato rettangoli tecnologici in classi virtuali, dapprima in forma asincrona: soprattutto i primi si sono sentiti tutti gli artefici di percorsi formidabili con materiali reperiti in rete; post corredati da video, foto, testi. Poi si è cominciato a capire che qualcosa non andava, occorreva pensare strategie adeguate, nuove regole comunicative, per arrivare all’obiettivo. Ma quale era l’obiettivo da raggiungere? Bella domanda! La conoscenza certo, però anche la capacità critica, soprattutto la capacità critica, perché altrimenti la risposta si può ridurre ad uno sterile “copia incolla” che non produce nulla.

Così  ben presto il materiale postato non bastava più e si è avvertita la necessità di “vedersi”, di simultaneità e allora, si è ceduto alla sincronicità: skype, zoom, meet e il gioco è fatto! Ri-vedersi ha significato riscoprire lo sguardo, a poco a poco sono riapparsi i libri, i quaderni, ragazzi e ragazze che fanno  domande e l’insegnante che risponde. Si prova un po’ quella strana sensazione di fare di nuovo lezione, mentre intorno c’è la dimensione casalinga; a volte passa un genitore o accanto c’è una sorella o un fratello, non c’è la campanella e talvolta neanche le scarpe ai piedi (tanto si rimane a casa e nessuno vede le gambe).

Si è entrati così in una nuova dimensione nel momento di emergenza mondiale, nel quadro di straordinarietà eccezionale; un nuovo patto tra insegnanti e studenti si stabilisce. Si fanno strada  gratitudine, necessità, esigenze pratiche, voglia di evasione, scambio, continuità, ma anche accordo su regole, tempi e metodi. Un filo, forse molto più di uno, tiene, come se fosse d’acciaio, nessun cedimento. Qualcuno è sfuggito? Ha preferito rilassarsi a letto o fare altro? Sono davvero pochi. Quelli che preoccupano semmai sono coloro che si sono ritrovati senza mezzi, device o connessione, che non è per niente facile raggiungere e, forse, non lo saranno a breve termine. Ecco allora che le disuguaglianze che in classe si appianano, nella distanza si palesano molto di più.

Il segreto è stato accorgersi del cambiamento e non forzare la ripetizione mimetica della lezione in presenza. Impossibile replicare,  perché la scuola in presenza è un’altra cosa. Tanto vale allora riflettere e capire per poi agire cercando la direzione giusta, rimanendo consapevoli che ogni operazione messa in campo non è priva di ricadute e che si tratta di uno stato emergenziale.

 

La direzione Il tempo è trascorso con nuove pianificazioni, tra momenti sincroni e altri asincroni, tra incontri virtuali e studio silenzioso. Gli argomenti trattati sono stati visti da molti punti di vista: diversi i momenti di dibattito tra scrittura e videoconferenza, nella ricchezza dello scambio reciproco. Leggersi reciprocamente ha fatto emergere ognuno con la propria storia e personalità. Nulla di straordinario naturalmente, a scuola è normale. Però il metodo si è dovuto ri-studiarlo, si è dovuto ri-pensare tutto e questo è toccato ai/alle docenti (e nessuno lo dice!), non certo ai mezzi di comunicazione (che pure hanno modificato il loro ‘palinsesto’ per offrire servizi), perché la scuola è un’altra cosa.  La didattica è un esercizio di stile alla Queneau, la stessa storia vista da tanti punti di vista/stile diversi che se letti non singolarmente, ma insieme, possono riconsegnare il sistema complesso della realtà. La didattica è imparare a interrogarsi, a pensare.

Molto si è fatto, il tempo è stato impegnato al di là di qualsiasi interruzione, nessuna campanella a sancire la “fine”; altro che conteggi da giornale con la calcolatrice che calcola quanti minuti effettivi sono stati impiegati e quanti ‘sacrificati’: la scuola non la si calcola con un timer (quello va bene in cucina). La fatica è stata tutta sulle spalle degli insegnanti, poco aiuto è venuto dall’esterno o dall’alto. Si è operato con responsabilità e senso di autonomia, sapendo che il ruolo era fondamentale e non delegabile ad altri. L’insegnamento/apprendimento è proseguito, anche se ha dovuto fare i conti non tanto con intoppi, incapacità, difficoltà, quanto con un tempo mutato dell’esistenza sia sul piano individuale che globale, perché la tristezza, il senso di prigionia, la paura e l’anomalia non sono stati semplicemente stati d’animo, bensì il contesto entro cui si operava. Difficile talvolta dare corso a creatività o leggerezza, quando una ragazza racconta in privato “papà è positivo ed è stato ricoverato”, o una brillante studentessa confessa “siamo tre figli e un unico computer che serve una volta a settimana anche a mamma per lavoro”, o un simpatico ragazzo si fa serio per dire “papà non lavora più da settimane e non riesco a fare i compiti con la tensione in casa”… la scuola  - per chi la vive veramente e dal di dentro  - è in questa dimensione, in cui si mescolano tante traiettorie diverse nella creazione di qualcosa difficile da definire: un po’ come nel racconto di David Foster Wallace (Questa è l’acqua, Torino, Einaudi 2009) in cui

Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?”. I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?”.

Ecco “ma cosa diavolo è la scuola?”: difficile a dirsi. Consapevoli che, seppur completamente immersi, non la potremo mai definire  fino in fondo, perché vi ‘nuotiamo dentro’ a nostro agio con naturalezza, senza il bisogno di delinearne i confini (de-finire),  però allo stesso tempo irritati un po’  dalla sua immagine restituita da chi non vi opera, perché non corrisponde, velatamente falsificata.

La scuola sembra spesso troppo tradizionale, sempre un  po’ arretrata rispetto ad un mondo che corre verso un’innovazione tecnologica difficile da raggiungere, ma in realtà continua ad essere il pilastro della nostra identità, anticipatrice di soluzioni che la politica tarda ad affrontare: si pensi alla multiculturalità – ad esempio – che la scuola ha affrontato da subito già a metà degli anni novanta, generando comunità e tutele, al contrario di una politica che tarda ancora a trovare soluzioni adeguate, come sulla questione necessaria ed essenziale della cittadinanza.

Occorre non dimenticare la prassi secolare che la scuola prevede e che non è sostituibile da nessuna visione attraverso lo schermo di pc, tablet o smartphone. Il sapere richiede fatica, curiosità, riflessione, dialogo vero, umanità, competenze, attenzione, presenza,  corpi che agiscono, passi che si compiono all’andata e al ritorno. La scuola esige rispetto e attenzione! E forse gli insegnanti occorre che interrompano il silenzio, si facciano sentire e li si cominci soprattutto a interpellare.

 

 

Didattica a Vicinanza.   di Laura BIANCHI

 

25 febbraio 2020, martedì grasso. Le lezioni sono sospese, in Lombardia il Covid 19 si sta propagando in modo esponenziale. Le incertezze sono enormi, come il timore e l’apprensione.

Domani avrei fissato un compito in classe di italiano con la mia terza liceo scientifico. Le fotocopie giacciono nel mio cassetto, in una scuola vuota. Ma nel mio Dropbox ho le tracce comunque. Cosa fare? Rinviare tutto? Domattina devo rassegnarmi a non fare lezione, a lasciare soli gli studenti, alle prese con un prolungamento inaspettato delle vacanze di Carnevale, gradito forse, ma altrettanto instabile?

Alle 11.45 prendo la mia decisione. Ho già il gruppo WhatsApp con tutti i loro numeri; ho la piattaforma collaborativa Edmodo; loro hanno il mio indirizzo mail. Così, invio il primo di quella che non so ancora che sarà una lunghissima serie di messaggi: “MESSAGGIO IMPORTANTE. Il compito in classe di domani non è rimandato. Tutti presenti in chat alle 10. Vi mando le tracce e me le spedirete entro le 13 alla mia mail. Mi fido di voi. Tanto conosco ormai stile e contenuti.” Ea aggiungo: “Io non mi fermo. I prossimi giorni, nelle mie ore, leggeremo Boccaccio insieme, ciascuno per conto proprio, e mi farete domande in merito.”

Ecco; ora aspetto le loro reazioni. E non mi sorprendo quando, nel giro di pochi minuti, fioccano i “Va bene, grazie!”, i pollici su, gli “OK!”, I “Va bene prof!”. Il giorno dopo, faccio l’appello su WhatsApp: tutti presenti. Entro le 13, arrivano i file, che stampo e correggo, ancora illusa che possa restituirli a mano, guardandoli negli occhi.

Non sarà così. Quei compiti sono ancora nel cassetto della mia scrivania, a casa, da dove ho vissuto centotré incredibili, assurdi, difficili, esaltanti giorni di lezione. Tutti da inventare, ancora prima che la DaD si chiamasse così: Didattica a Distanza, quasi un ossimoro, di sicuro una sfida.

Del resto, la scuola (non solo quella in cui insegno da quasi trent’anni, un classico a cui da cinque anni si è aggiunto uno scientifico) da anni è preparata a includere modalità diverse di insegnamento: sono aumentati i dislessici, i diversamente abili, gli studenti con bisogni educativi speciali, gli stranieri, e anche gli studenti degenti in ospedale hanno il diritto di seguire le lezioni. Per tutti loro, spesso, docenti volonterosi, entusiasti, competenti, capaci, suppliscono alle pecche e ai vuoti che incombono dall’alto di un potere ottuso, o che persistono in un sottobosco di insegnanti – impiegati, demotivati e disattenti, vera, reale, pesante zavorra di un sistema che avrebbe solo bisogno di volare leggero, sopra pastoie burocratiche, sindacalismi bizantini, norme dello scorso secolo (l’Ottocento, nemmeno il Novecento), difficoltà logistiche più paventate che reali.

Invece, in questi centotré giorni, noi, che sognavamo da tempo una scuola diversa, abbiamo volato leggeri, abbiamo voltato pagina, abbiamo voluto fortemente un modo diverso per comunicare, per fare non solo didattica, ma pedagogia, per superare la mera trasmissione di contenuti e provare a raggiungere una dimensione nuova, in equilibrio, precario, instabile, ma resistente, fra umanità e tecnologia.

Innanzitutto, molti di noi hanno fatto i conti, per la prima volta, con un ribaltamento della prospettiva: si sono persi, all’inizio, abituati com’erano a pontificare dalla cattedra, trincerati dietro la cattedra, abbarbicati alla cattedra, ma svuotati ormai del reale significato di quell’ex cathedra che aveva segnato intere generazioni (ossia, autorevolezza prima che autoritarismo). Quindi, via alle scuse, agli alibi, ai problemi, agli ostacoli: eh, ma non ho un pc con la webcam, eh, ma la mia connessione è debole, eh, ma come faccio a parlare, eh, ma non posso sapere chi c’è al di là dello schermo, eh, ma come facciamo con i collegi docenti, eh, ma non è possibile fare i compiti in classe…

Uno per uno, ogni scusa è stata spazzata via, ogni ostacolo superato, ogni problema risolto, ogni alibi smontato. E tutto in una settimana, che, se si pensa all’elefantiasi di cui sopra, è un tempo brevissimo, un battito di ciglia, in confronto alla stasi di decenni. La scuola ha fornito pc in comodato d’uso gratuito, sono state date le “saponette”, è stato aperto un account di istituto per docenti e studenti, è stata attivata una community in cui caricare lezioni, spiegazioni, materiali, compiti assegnati e svolti e corretti e restituiti e classificati, è stato aggiunto un sistema di chat dedicato ai soli studenti e docenti dell’istituto. Ed è iniziato il grande momento delle lezioni in sincrono; finalmente ci guardavamo in faccia, sentivamo le nostre voci, potevamo interagire con totale libertà.

Non abbiamo perso nemmeno un’ora; neanche in quei primi giorni. Perché, quando si desidera fortemente una cosa, si cerca in ogni modo di realizzarla. Quindi, lezioni con audio su WhatsApp, con i loro interventi e le mie spiegazioni; tentativi di Skype, col link inviato su WhatsApp o Edmodo; compiti assegnati su questa piattaforma e restituiti via mail. Perfino messaggi privati, perché era ormai iniziato quel flusso di umanità, che, non potendo toccarsi, né scambiarsi sguardi, si cerca, come può, come sta imparando a fare.

Inoltre, l’aspetto esaltante è consistito proprio nel contatto fra insegnanti e studenti, e nel ribaltamento delle posizioni; spesso, infatti, i primi hanno chiesto aiuto ai secondi, per fare funzionare il microfono, per trasmettere video, per registrare lezioni, per inviare le risposte. Tanto più umani, e schietti, e empatici, e vicini ai loro studenti. Scendere dalla cattedra, aggirarla, demolirla, mettersi sullo stesso piano, entrare nella stessa dimensione di apprendimento, scoprire che a volte lo studente più svogliato può essere utile e sentirsi apprezzato, capire che, in condizioni estreme, occorre imparare insieme, è stata la vera rivoluzione copernicana di questi centotré giorni. Il tutto, senza perdere un grammo della propria autorevolezza, anzi, aumentandola, proprio in virtù dell’empatia, nata dall’evidente sforzo di avvicinarsi agli studenti, dalla costanza nel perseverare nella decisione presa, dall’equilibrio dimostrato anche in situazioni proibitive. Proibitive per docenti, e studenti, e famiglie in genere; nelle scuole meno dotate, nelle zone più disagiate, fra le famiglie numerose e impoverite dalla crisi, i tempi sono stati difficilissimi, molti sono rimasti indietro, qualcuno è stato escluso, e la convivenza coi genitori in confinamento, disoccupati o in smart working, già dura, si è rivelata un ostacolo spesso insormontabile. Di questo occorre tener conto, non solo nella ripresa, ma soprattutto nel caso peggiore, ma purtroppo possibile, in cui si dovesse tornare in quarantena.

Fare il proprio dovere, senza fuggire davanti alle difficoltà; rispettare gli impegni presi; presentarsi ogni giorno come da orario scolastico; seguire il programma stabilito; non demandare alle lezioni in asincrono la responsabilità educativa; non farsi supplire da webinar o da lezioni preregistrati e pronti al consumo, ma scarsamente adatti per quella specifica classe, e soprattutto che non danno la possibilità di un’effettiva interazione; accettare di lavorare di più, per ore, senza muoversi dal pc, aggiornandosi, umilmente, con fatica, ma anche con fermezza e lucidità; aprirsi alle critiche, ai miglioramenti, alle revisioni, e mettersi in discussione. Tutto questo, e molto altro, è stato il compito del docente in questi centotré giorni; e il tutto in un clima proibitivo, di paura e fragilità, opponendo la voce della cultura, dell’intelligenza, della vita e della bellezza all’urlo delle ambulanze, che, soprattutto in Lombardia, raggiungevano le decine in poche ore.

E c’è stato spazio anche per i sentimenti; la community dà modo di assegnare compiti di vario genere, fra cui anche commenti sull’attualità, che spesso si trasformavano in flussi di coscienza, in confessioni dense di incertezze e fragilità. Il fatto di poterne scrivere, di avere qualcuno a cui scriverne, è stato l’elemento migliore di questi centotré giorni. La sensazione fondamentale di una didattica pedagogica, che passa, certo, attraverso i contenuti, ma tocca l’intimo degli animi, li interroga, li scuote, indica la strada non certo per risolvere i problemi, ma almeno per attraversarli ed affrontarli con consapevolezza.

Il tutto, inoltre, in mezzo a comunicazioni ministeriali contraddittorie, controverse, imprecise, raffazzonate, tardive, improvvisate, e in un coro di opinioni, giudizi, critiche, spesso formulati da interlocutori o commentatori incompetenti, supponenti, superficiali, che discettano di scuola dall’alto della loro unica esperienza, magari di trent’anni prima. Vanverismo pedagogico, come è stato definito, fondato su frasi fatte e stereotipi obsoleti. Una navigazione difficile, che sta ancora perdurando, soprattutto in vista della ripresa di settembre, fra deliri di plexiglas, thermoscan, autocertificazioni, mascherine, turni e proclami, e sempre accompagnata dal solito coro, composto da chi, a ragione, invoca il dimezzamento del numero degli studenti per classe, senza però considerare una serie di problemi collaterali di difficile risoluzione (dimezzamento di studenti per classe, quindi raddoppiamento di spazi, di materiali, di docenti e di personale non docente: in quali strutture? Con quali stanziamenti? Per sempre?), e da chi, a torto, vuole che tutto resti com’è, che tutti tornino a scuola, perché tanto i ragazzi non si ammalano, e se si ammalano guariscono (ignorando che potrebbero contagiare persone fragili, anche fra i loro compagni, e che esiste una precisa responsabilità penale della scuola come istituzione).

Molteplici sono le idee, le proposte dei soliti volonterosi di cui sopra, vanamente ostacolati da chi, dopo aver fatto poco o niente, adesso vuole riposare, godersi i propri trenta giorni di ferie, perché tanto c’è chi pensa e decide per lui. Ma la rivoluzione è ormai in atto, e le zavorre impiegatizie se ne facciano una ragione: il patrimonio di esperienze, di dibattiti, di competenze e conoscenze raggiunte non si dovrà disperdere, e, se la didattica a distanza non è che un rimedio per le emergenze, di sicuro i suoi frutti positivi vanno conservati con cura e dedizione: l’uso delle piattaforme per salvare le lezioni, quello delle community per caricare e correggere in forma elettronica i compiti a casa, la costruzione di lavori collaborativi di vario genere, dai video ai siti, dagli articoli alle presentazioni. E soprattutto la coscienza che, certo, reale è meglio che virtuale; ma, quando la realtà si serve della virtualità per trovare il proprio senso per resistere, allora la seconda deve essere riempita di quanto compone la prima: sensibilità, duttilità, empatia, energia. Un cammino iniziato quell’ormai lontano 26 febbraio 2020, che non si deve interrompere.