Luigi Lusenti

La comunicazione al tempo di Facebook e di Trump.

19/01/2021 di Luigi Lusenti

Roberto Escobar è stato per molti anni docente di filosofia politica e analisi del linguaggio politico all’Università degli Studi di Milano nonché critico cinematografico per molti giornali e molte riviste. A partire dallo studio prima di Friedrich Nietzsche e poi di Max Stirner, si è occupato e si occupa dei temi della paura in politica, della persecuzione e della libertà. Ha pubblicato libri sia di filosofia che di critica cinematografica. L’intervista con il professor Escobar prende spunto da un suo post uscito su FB pubblicato dopo l’esclusione di Donald Trump dal social di Mark Zuckerberg.

Professor Escobar lei ha scritto un post nel quale rivendica come giusta la posizione assunta dalla piattaforma Facebook nei confronti del Presidente degli Usa.

Facebook è una piattaforma privata. Deve seguire le leggi ma poi si dà anche delle sue norme, ovviamente compatibili con leggi, ma che evidenziano il carattere privato della piattaforma. Direi che il significato di privato, in questo caso, è molto chiaro e va inteso in tutta la sua totalità. Le piattaforme social rappresentano capitali privati che producono profitti privati. Noi ne siamo dei clienti e, come tali, quando apriamo un profilo personale firmiamo un contratto nell’ambito del quale ci sono le regole di comportamento a cui bisogna attenersi. Forse non prestiamo molta attenzione quando aderiamo a uno di questi social ma nel momento in cui ho aperto un account io le ho sottoscritte. È un contratto normale e un contraente che non rispetti le norme contrattuali viene escluso dal contratto. È la normalità del diritto privato.

Quanto dice può essere riferito anche al caso Donald Trump?

Ovviamente si. Non è l’espulsione di  Trump che mi colpisce ma il fatto che questa sia avvenuta dopo anni di post violenti, razzisti, carichi di odio scritti dal presidente americano. Mi scandalizza che i social non l’abbiano fatto prima. E non lo facciano anche verso tutti quei potenti che operano sui social similmente a Trump. Anche qui si vede la differenza fra chi è “potente” e chi è un semplice cittadino. Se io pubblico un post, è successo, sulla Venere di Milo vengo sanzionato perché la “Venere” è nuda. I potenti invece vengono sopportati dalle direzioni di questi social, anche quando infrangono le norme penali e non solo quelle che si sono date le varie piattaforme. Nessuno si è infatti preso la briga in questi anni di contestare a Trump questo violazione delle leggi prima ancora delle norme private.

Il cittadino può fare qualche cosa nei confronti della realtà di cui lei parla?

Una denuncia, una denuncia alla polizia postale quando si scoprono post che infrangono le leggi e il codice penale. Perché io posso fare un contratto con chiunque per affittare il mio appartamento però quello che l'ho prende in locazione non può usarlo per farne un postribolo, lo vieta tassativamente la legge.

C'è però chi dice che  tacitare in questo modo il presidente degli Stati Uniti d’America, apparentemente l'uomo più potente del mondo, può rappresentare un problema.

Il problema casomai è per lui. Io dico anzi che se fosse stato “zittito” prima, il mondo avrebbe tirato il fiato ben prima di ora. I potenti hanno molti modi per esprimersi, non hanno bisogno dei social. Ma se li usano devono attenersi non tanto alle regole di Facebook ma alle leggi dello stato.

Professore, veniamo alla seconda parte del suo post. Lei scrive che il problema è che delle piattaforme private, i social cosiddetti, siano diventati il luogo privilegiato sia della comunicazione politica, specialmente dei politici,  che della “informazione”. I social paiono poi uno strumento con cui molti cittadini affermano il loro pensiero sostituendosi agli organi di informazione.

Esatto. Su questa tematica vi sono parecchi problemi. Il primo riguarda il monopolio, meglio dire oligopolio, del discorso pubblico, della conversazione pubblica. Un oligopolio in mano a pochi centri privati che controllano tutti gli strumenti di comunicazione che contano.
Qualcuno potrebbe dire anche per i giornali è così.  Infatti per i giornali esiste un regime di non oligopolio, di norme che regolano questo settore. Che poi non vengano fatte rispettare è un'altra questione. Nessuno può detenere un controllo monopolistico dei giornali. Perché invece lo può fare una piattaforma social? Mi direte che “social” non è giornalismo. Non lo è infatti, ma è pur sempre comunicazione. E i social hanno occupato e privatizzato  i nostri spazi di discorso pubblico. Ed essendo che il loro interesse e far profitti, non prestano attenzione alle regole ma solo a quanti fa  crescere il traffico, l’utenza. Per questo intervengono raramente contro post di questo tipo che fanno audience.

Si dirà però che esistono gli algoritmi e che alla fine sono loro a decidere.

Certo e infatti gli algoritmi non tengono conto che l'odio non è una buona cosa. Tengono invece conto del fatto che ci sono post i quali fanno aumentare il traffico e di conseguenza la pubblicità. È perversa questa cosa. È perversa non solo perché fa circolare il linguaggio d'odio ma perché lo incentiva. L’aumento di questo linguaggio aumenta l’attenzione della gente, aumentando gli accessi così da far crescere l’indotto pubblicitario.

Ma si può fare una comunicazione politica in 140 caratteri?

A parte il fatto che sono di più, Perché 140 sono la prima parte poi di solito si allega un documento. Ma la domanda ha senso in quanto la questione è che si fa propaganda politica in 140 caratteri. Questo è il disastro. Non c'è una proposta politica, Non c'è un ragionamento politico. Sono una serie di slogan cioè la politica è stata ridotta completamente a slogan. La politica è sempre stata anche slogan ma non solo. Oggi invece è solo slogan.

Professore c'è anche un problema dal punto di vista dell’informazione. Io un tempo comperavo un giornale e, pur, nella libertà di scelta e di critica, quella era l’informazione.  Oggi invece non solo i social diventano mezzi di informazione ma io stesso mi metto allo stesso livello dei grandi media.

Si è così, Ognuno di noi pensa di fare informazione ma poi non è così,  esiste l’inganno perché in realtà la capacità di ascolto dei gruppi è imparagonabile con la mia. Ci sono investimenti di milioni da parte di grandi gruppi sui social. Investimenti che mettono fuori gioco i singoli.

Non solo professore ma un giornalista dovrebbe avere una sua formazione professionale, una sua deontologia, una capacità di andare a verificare le fonti cosa che un singolo cittadino non ha.

E’ vero. Oggi tutto è saltato, qualsiasi cosa va bene. Ciò che è dimostrabile e ciò che non è dimostrabile vengono posti sullo stesso piano. La terra è piatta e se ne assume la veridicità perché è stata letto su Internet.

Volevo chiederle dalla sua esperienza che cosa si potrebbe fare.

Il discorso è davvero complicato. Intanto bisognerebbe cominciare a far pagare le tasse ai giganti del web.  La mia sarà una soluzione semplicistica ma come spesso succede osservazioni semplicistiche sono fondate. Non pagano le tasse o le  pagano in paradisi fiscali. Quindi prima di tutto fargli pagare le tasse.  Poi, ed è  la cosa davvero più complicata, impedire l’oligopolio con accordi che ovviamente devono essere fra le nazioni, non può essere l'orientamento solo di uno  Stato. Queste sono aziende sovranazionali per cui occorre un intervento sovranazionale. Di tipo fiscale, di tipo penale, di tipo economico. Non credo che si debba intervenire con una legislatura nazionale specifica perché se no daremmo in mano ai singoli stati un'arma per intervenire e per censurare le comunicazioni sui social come avviene in molti paesi.

Professore c’è qualche esperienza concreta in merito a questi provvedimenti da assumere su un piano sovranazionale?

No. in questo settore, che io sappia, no. C'è però un'altra questione che volevo aggiungere; se posso che riguarda il nostro immaginario. L'indignazione che molti hanno mostrato di fronte al fatto che veniva limitata la libertà di parola di Trump nasconde il vero problema. L’idea di fondo è che una dimensione privata possa costituire la dimensione pubblica delle relazioni politiche. È come se noi accettassimo il fatto che l’informazione privata è informazione  pubblica. E questo è quello che stiamo pensando ormai da decenni: che il privato sostituisce il pubblico. Diciamo che abbiamo smesso di rivolgerci al pubblico però vogliamo che il privato agisca da pubblico. Così è successo in economia, è successo in politica.  In politica è il privato che determina le scelte politiche E con questa idea che Facebook e Twitter abbiano il compito di difendere la libertà di espressione abbiamo fatto della libertà di espressione una questione privata.