La memoria non può uccidere la Storia - intervista a Gianluca Paciucci
Come ha vissuto Trieste la giornata del 13 luglio quando il presidente italiano Mattarella e quello sloveno Pahor hanno compiuto alcuni atti simbolici ripercorrendo una storia segnata da drammi per tutti i gruppi etnici presenti nella zona del Carso?Intervista all'intellettuale triestino Gianluca Paciucci, insegnante e presidente delll’Associazione Culturale “Tina Modotti” (Trieste).
A Trieste si è vissuta questa giornata con una enfasi emotiva altissima. In un giorno si è ripercorso un periodo lungo un secolo, rimettendo in discussione tutto il novecento, almeno per come si è espresso in questi territori di frontiera. Il primo atto significativo che voglio sottolineare è la restituzione alle comunità slave della città del Narodni Dom (Casa del Popolo) bruciato proprio 100 anni fa da squadracce fasciste capitanate dal capo manipolo Francesco Giunta, arrivato per compiere questo atto provocatorio fin da Firenze.
Devo dire che, leggendo i giornali nazionali e guardando i telegiornali più importanti, questa restituzione del Narodni Dom ai legittimi proprietari è stata messa in secondo piano. Eppure è stata questa restituzione, fatta nello stesso giorno anniversario dell'incendio, ad avere costruito una serie di eventi eccezionali. Che cosa invece è stato evidenziato nella quasi totalità dei commenti? La visita del presidente sloveno alla foiba di Basovizza.
Mi permetto di criticare, e uso il termine nel significato alto, perché vorrei dare un senso a tutta questa vicenda e proporre un ragionamento su cui confrontarsi evitando l'omologazione del pensiero che, così per come è stata proposta, pareva non accettare pareri diversi da quelli ufficiali. Il problema fondamentale, per me, è perché questa visita alla foiba di Basovizza contemporaneamente alla restituzione della casa del popolo? È una equiparazione che, dal punto di vista storico, non ha nessun senso, come la si voglia vedere. E' un mercimonio che gli opposti nazionalismi compiono sempre qui a Trieste: se c'è un crimine da una parte ce ne deve essere uno anche dall'altra.
È la memoria bipartisan, quella criticata da molti, fra cui Enzo Bettiza, certamente non un uomo di sinistra.
Stavo arrivando proprio a questo. L'istituzione il 10 febbraio della "giornata del ricordo", nella data specifica della firma del trattato di pace del 1947, a così pochi giorni dal 27 gennaio, definita a livello internazionale "giornata della memoria", cioè nel giorno in cui si liberò Auschwitz e si scoprirono gli orrori del nazifascismo, fu una scelta sbagliata e negativa. Anche dal punto di vista delle destre è come dire: "voi avete Auschwitz e noi abbiamo le foibe".
Ma è una cosa assurda. Sembra che chi ha votato per la giornata del ricordo il 10 di febbraio non senta come sua quella del 27 gennaio, quella della memoria legata alla shoah e ai campi di concentramento nazisti. Una equiparazione che in molti, da ambo le parti, e da ambo i paesi, hanno sempre rifiutato. Adriano Sofri, in un recentissimo articolo denuncia questo scambio fra memoria e ricordo. Parla di una ferita originaria in questa corsa all'appropriazione memoriale. Ed è su questa ferita che dobbiamo riflettere.
Non possono dirci che non possiamo discutere. In una democrazia avanzata la discussione e il confronto è tutto. Non si possono mettere a tacere le voci critiche. Noi abbiamo bisogno di comprendere e analizzare quel dramma che è stato l'esportazione anche per via armata del sistema fascista in mezza Europa. Non possiamo pensare che le atrocità e la morte siano opera solo degli altri. È un percorso che certamente non deve essere compiuto solo dal popolo italiano, perché non sono da meno i macigni che hanno popoli come quello croato o sloveno. Ma abbiamo l'obbligo di cominciare da noi, a livello politico ma anche molto a livello scolastico. Non basta l'articolo di uno storico, seppur illuminato, su qualche rivista specializzata perché questo ripensamento diventi coscienza nazionale.
C’è stata qualche esperienza promossa nella direzione di cui parli?
Si fa sempre in positivo l'esempio del mondo tedesco. Io sono in buona parte d'accordo su questo perché sulla fine della seconda guerra mondiale, passata l'onda lunga del nazismo, venne fuori un intellettuale come Karl Jaspers che riflette sulla colpa non dei politici tedeschi ma del popolo tedesco in quanto tale. Mi pare che il suo saggio La questione della colpa sia del 1946-‘47. C'è stato un Willy Brandt capace di inginocchiarsi a Varsavia nel ghetto ebraico. Ed era il dicembre del 1970, in piena guerra fredda. È vero, come sostengono molti, che la Germania ha immediatamente rimesso nel circuito economico produttivo vecchi gerarchi del nazismo. Ne parlava Vittorio Sereni ne "Gli strumenti umani". È vero anche che i paesi vincitori della guerra si sono serviti di queste figure per rilanciare la loro economia. È successo nell'Europa dell'Est e negli U.S.A. come nelle dittature sudamericane.
È sicuramente interessante questo discorso per i paesi dell'Est Europa aderenti o no al Patto di Varsavia. È interessante perché il fenomeno lo si può vedere anche dopo l'89, post caduta muro di Berlino. Sì, e penso che siano persone che anche nel socialismo avessero come obiettivo il loro tornaconto personale e non il bene collettivo. Una visione della vita tutto tranne che socialista. Avendo questa impostazione preminente ecco che si sono tranquillamente riciclati nel passaggio ad una società capitalistica. Centinaia di individui che erano capetti nelle dittature sanguinarie pseudocomuniste si sono poi messi entusiasticamente al servizio della trasformazione verso il capitalismo selvaggio senza alcun problema. Vorrei dire che la parte sana dei paesi dell'est era all'opposizione delle dittature comuniste (in parte della classe operaia e in qualche sincero intellettuale anche vicino al potere – penso alla straordinaria Christa Wolf) e lo sono anche oggi nel libero, tra virgolette, mercato capitalistico. Forse questa è la differenza. Mentre i burocrati senza scrupoli si sono immediatamente uniti a personaggi dell'estrema destra e hanno iniziato a gestire la fase nuova del capitalismo feroce e senza regole. Penso alla Polonia, un paese che già nel 1968, in pieno periodo socialista, promosse una forte repressione nei confronti degli ebrei.
Gerarchi del socialismo prima, gerarchi del capitalismo poi. E con spinte antiebraiche di nazionalismo patriottico che erano presenti già nei regimi precedenti. Anche nella ex Unione Sovietica quando si parla di socialismo nazionale troviamo una parte del partito comunista della Russia di oggi su posizioni ti destra populista. Penso alla esperienza di Ceausescu in Romania. Alcuni suoi collaboratori, che sono ancora in vita, furono pubblicati in Italia da case editrice dell'estrema destra.
Come è stata l'informazione che è passata sui media di questa giornata?
Ho già avuto modo di dirlo. È stata una informazione parziale e sbagliata. Anche i massimi organi di stampa, come ad esempio il Corriere della Sera, non sono riusciti a non omologare la notizia. La giornata del 13 luglio appare come la visita del presidente sloveno Pahor alla foiba di Basovizza. In più si aggiunge che in quella foiba ci sono 2000 vittime. È vero che il numero non conta, ammazzare una persona è come ammazzare tutta l'umanità. Però, dal punto di vista storico e degli avvenimenti, è anche vero che questa notizia è palesemente falsa. Da tempo qui a Trieste vi sono alcuni storici, gli unici rimasti a fare ricerca, che chiedono che venga aperta quella foiba. Oggi abbiamo la possibilità di farlo, di contare realmente le vittime e di fare il loro DNA in modo di conoscerne la provenienza. Invece vi hanno messo sopra una lastra di cemento. Come fosse una pietra sulla storia. Perché oltre alla memoria c'è la storia. Se la memoria non si basa su un lavoro certosino di storici e storiche, basato su documenti, su notizie riscontrabili, su ciò che è realmente accaduto non serve a nulla.
Perché non si fa? Perché si vuole mantenere questa pietra sopra. Altro che apertura!, c'è una ennesima chiusura. Se il Corriere della Sera continua a dire 2000 infoibati solo a Basovizza dice una cosa non suffragata da fatti. Va a perpetuare una grande confusione. Nuovamente abbiamo da un lato la casa del popolo bruciata dai fascisti e dall'altro la foiba con i morti fatti dai titini. Lo ricordava il bravissimo storico Davide Conti sul Manifesto di qualche giorno fa che in tutta questa vicenda manca una parola che non è mai stata pronunciata. Manca la parola fascismo. Qualcuno oppone a questo la pietas. Ma la pietas è una cosa diversa. È fondamentale per qualsiasi vittima di quella vicenda bellica. Io leggo sempre con i miei ragazzi in classe le ultime pagine de La casa in collina di Cesare Pavese. Un libro in cui l'autore scrive che “ogni guerra è una guerra civile”.
Io sono pienamente d'accordo su questo per cui la pietas deve essere un sentimento indirizzato specialmente al nemico. Ma il discorso storico è diverso. È il discorso che vede nel fascismo, in questo caso specifico, il movimento politico che ha causato il disastro in Europa e nel mondo. E in queste zone dagli anni ‘20. Il fascismo era quello di confine, un confine dove accadevano fatti tremendi già prima dell’ascesa al potere di Mussolini Questa analisi della storia è un lavoro che va fatto con grande cautela e intelligenza, ma bisogna farlo. Altrimenti contribuiamo a perpetuare una serie di omissioni, a volte anche di menzogne, che non fanno il bene delle persone che vivono in questi territori di confine e che meriterebbero una vera pacificazione. Invece, a volte, i carnefici di un tempo addirittura vengono esaltati.
Possiamo parlare di un nazionalismo democratico che non aizza gli animi ma livella le differenze, le parifica?
Sì, è una formula che si può usare. È evidente ormai che in questa fase sono un po' pessimista anche se in genere non lo sono, ma il danno memoriale mi pare ormai fatto. Il danno memoriale ai danni della storia. È stato compiuto da tutte quelle forze politiche che su queste parificazioni hanno stabilito il loro attuale potere, forze sia di opposizione che di governo. È l'esempio che porta a parlare dei "ragazzi di Salò" senza vederne la portata delle scelte e dei risultati, paragonandoli a chi scelse la lotta armata per liberare il paese.Io parlo schiettamente. Qui a Trieste ci sono stati gruppi di comunisti stalinisti che nel periodo della Repubblica federativa di Jugoslavia tacevano su quello che succedeva oltre confine. C'era il socialismo, come c'era, sostenevano comunisti anche d’altre parti d’Italia, a Mosca. Io, che ero ragazzino negli anni Settanta, conoscevo bene invece gli errori di quei sistemi. È possibile che alti dirigenti dl PCI non lo sapessero? Non facciamo ridere. Ma la farsa prosegue quando, per tenere in piedi carriere politiche, si è passato dal silenzio assoluto ad affermare che la Jugoslavia e l’Unione Sovietica fossero dei lager e basta.
Il disfacimento di un pensiero politico non per forza di cose deve passare da una negazione a un'altra negazione. Io sono comunista, e lo ero anche allora, da adolescente, ma non ho mai taciuto il disastro di molti sistemi che si rifacevano al socialismo. Questi invece vogliono rubare la scena ai fascisti. Se la destra dice che ci sono 5000 infoibati, loro, i democratici, aumentano e parlano di 15000 vittime. Non è serio. Questa pare una gara a chi la spara più grossa. Io vorrei, prima di tutto, tornare alla storia che si basa sui documenti. Marc Bloch, nei suoi studi, ce lo ha spiegato in modo straordinario. Se non ci si documenta non c'è storia. E qualsiasi nuova affermazione si deve basare su nuovi documenti.
Poi potrà anche esserci il confronto fra idee e interpretazioni, ma non è possibile che la memoria uccida la storia.
La memoria, senza una lettura dei fatti, può essere pericolosissima. Vediamo cosa ha voluto dire per Trieste. Noi abbiamo vissuto, il 13 luglio, un momento importante che aspettavamo da tempo. Ovunque si sono sentiti solo elogi per Mattarella e Pahor. Le uniche voci stonate sono state quelle di alcuni dell'estrema destra che ovviamente non si accontentano e attaccano perché è stata restituita la Casa del Popolo ai suoi legittimi proprietari: le associazioni slave di Trieste. Nella loro ottica è stato un grave furto fatto all'italianità. Pretendono di più e a mio avviso non si fermeranno qui, andranno avanti in questa richiesta. Già da anni ce ne stiamo accorgendo. Tutte le loro richieste atte a rivisitare la storia sono state gradualmente accettate da chi sta al potere in città.
Negli ultimi anni c'è stato un trionfo della destra al punto di vista memoriale: la statua a D'Annunzio inaugurata nella piazza centrale di Trieste nel giorno stesso del 100º anniversario dell’inizio dell'occupazione da parte del "Vate" della città di Fiume; l'istituzione il 12 di giugno della cosiddetta “Giornata della liberazione” della città di Trieste dalle truppe jugoslave dopo i 40 giorni della presenza dei titini a Trieste. Tutto ciò con una giunta e un sindaco di destra che fatica a fare i conti con la storia e la camuffa, la travisa. Vorrei però aggiungere questo, per quel che riguarda “noi”. Io sono un uomo profondamente di sinistra, però è evidente che non si può continuare a raccontare una storia della vicina Jugoslavia come di un paese di sogno. Ci sono alcuni jugoslavi che abitano qui a Trieste che parlano della Jugoslavia solo come una terra di fratellanza dimenticandosi dei momenti tristi e bui passati da quel paese e ricordandosi invece, spesso a ragione, dell’indubbia positività di certe fasi. Ci sono uomini di sinistra, come lo scrittore Giacomo Scotti, che ci hanno fatto capire altro. Penso al suo libro su "Goli Otok - L'isola Calva". Alla denuncia che ha fatto dei crimini perpetrati in nome del socialismo, socialismo a cui Giacomo si è sempre rifatto in tutta la sua vita a cavallo fra Italia e Jugoslavia, ora Croazia. Bisogna lavorare pure sulla storia, come ha fatto Giacomo Scotti, e non solo stare dietro vecchi miti. Io ho scritto, nella prefazione di un libro che, nel 1945, c'è stato del sangue versato in più. E che poteva anche non essere versato e che questo sangue ha poi chiesto il conto (le guerre degli anni Novanta…)
Io riconosco l'importanza della liberazione jugoslava compiuta da Tito e dai suoi uomini. Hanno combattuto contro i nazisti con eroismo e li hanno sconfitti. Sono stati fra i pochi a fare una guerra di resistenza straordinaria. Ma occorreva gestire bene il dopo ‘45, il dopo vittoria. Per alcuni partiti comunisti al potere non è mai stato facile. Si è passati subito alla via della repressione. E chi viene represso se non quello che è più simile a te? Ecco nel suo libro Giacomo Scotti parla in modo straordinario sulla realtà della Jugoslavia alla fine della guerra e poi altre/i del ’68 e degli anni Settanta, fino alla morte di Tito. Necessiterebbe uno sforzo storico anche di una parte consistente della sinistra, socialista e comunista, che prima taceva per non disturbare gli equilibri e fare carriera. Poi ne ha parlato in modo imbarazzante spazzando via tutto. Ma qui voglio essere ottimista. C'è ancora la possibilità di un intervento critico su quelle vicende che può essere finalmente messa in gioco.
Vorrei aggiungere un consiglio di lettura: Fuori dai confini. Memorie di un bambino sulla linea Morgan di Silvio Pecchiari Pečarič (curato da Adriana Giacchetti e pubblicato da Battello stampatore nel 2020). È un libro biografico di un ottantenne, uno sloveno bilingue, che parla del continuo mutare dei confini. L'autore ha perso più volte, a causa dello spostarsi della linea di frontiera, la sua casa. Alla fine è stato costretto a vivere in un campo profughi vicino a Muggia per poi trovare casa. In questo libro c'è un tentativo straordinario di arrivare alla comprensione dell'altro che non ho trovato in nessuna altra opera. Al rancore e alla violenza Silvio Pecchiari Pečarič risponde col rispetto dell'altro. Un sentimento che esprime pure oggi verso chi ancora vive nella casa che fu di suo padre. È un libro che apre prospettive nuove: la compressione del dolore degli altri.
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