Greg Brown Hymns to What is Left
2012 - Sawdust / CD Baby
Questo disco, intitolato significativamente o fatalmente “Inni a ciò che resta” è tutto fuorché senile, e insieme ha un suono vecchio come il mondo. E anche se sembra umorale e crudo, si tratta di un esercizio di stile: la voce, quel suo vocione scuro che conosciamo, cambia in ogni brano. Greg Brown ci spaventa con il ringhio roco e catramoso di Bones Bones, che per una volta non si può definire un timbro waitsiano proprio perché incorpora e quasi parodizza tutto il blues, da un John Lee Hooker con un tremendo mal di gola allo spettro più recente di un John Campbell, ci stupisce con il falsetto inquietante di Besham’s Bokerie, sorretta da slide e riverberi che rimandano alla produzione di Lanois o T-Bone Burnette, per una partitura che più canonica non potrebbe essere. Si continua con il basso ostentato di Brand New Angel, che più che Johnny Cash rimanda a Brad Roberts dei Car Crash Dummies ancora più impudico nello sfoggiare toni profondi, finendo per risultare straniante quanto uno Scott Walker del country-blues. Il timbro pietroso e nasale di Now thar I’m My Grampa è tutta l’America, la mesta All Those Things pare uscita dalla penna e dalla gola di quell’altro grande outsider che è Malcolm Holcombe.
Certo, la scrittura non offre punte di pathos, gli arrangiamenti rimangono legati alla tradizione come cavalli di razza in un corral da film: queste le immagini, bucoliche e casalinghe, epiche e insieme intime degli inni mesti di ciò che resta alla fine della fiera, del giorno, della vita, siano ricordi, considerazioni, residui o pietre preziose. E se per qualcuno il disco potrà essere noioso, per chi ha voglia di coglierne l’aspetto di fiero e amorevole recupero di un’intera tradizione estetica, il banjo, la chitarra acustica, il vibrato cavernoso e la malinconia pacificatoria delle ballate trasognate è da considerare la summa di un grande folksinger. Forse il più grande di quelli che restano.