Stephen King On writing (Autobiografia di un mestiere)
Frassinelli, 2016 Letteratura Straniera | Saggi
28/01/2016 di Corrado Ori Tanzi
King lo scrisse ancora dolorante dai postumi dell’incidente occorsogli il 19 giugno 1999 quando, camminando sulla Route 5, venne sbalzato fuori strada da un monovolume il cui guidatore era distratto a far sì che il cane nel sedile posteriore non facesse fuori la carne che aveva acquistato. Polmone collassato, gamba destra in dieci pezzi, quattro costole fratturate, bacino deviato la diagnosi. Mesi e mesi di dolori indicibili e, appena possibile, il desiderio di mettere sé stesso sulle pagine.
Ne uscì questo volume, imprescindibile per chi si accosta a lui e alla scrittura. Una prima parte legata più prettamente alla sua educazione. Cresciuto insieme al fratello da una ragazza madre (uno dei primi esempi americani di donna emancipata), abbandonata dal compagno affogato da un mare di debiti, King racconta il periodo tra infanzia e adolescenza focalizzandosi su precisi momenti di formazione. Come quello fornitogli da una mastodontica baby sitter che adorava sbatterlo sul divano, montare col suo enorme sedere sulla sua faccia e sparare poderose scorregge che accompagnava gridando «Bang!» per poi lasciarlo intontito, se non addirittura momentaneamente esanime, solo per vedere l’effetto che faceva. Autentica scuola di vita, secondo lo scrittore, perché, dopo che tu sopravvivi a un quintale di donna che ti scorreggia in faccia più e più volte, non potrà certo mai terrorizzarti una critica fetida sul Village Voice.
La seconda parte invece è più centrata sul mestiere dello scrittore. E qui la penna caustica e appuntita di King scende come uno stiletto o bisturi come se dovesse procedere nella scrittura di uno dei suoi tanti capolavori. Incomincia col definire gli strumenti che non devono mancare nella cassetta degli attrezzi del mestiere: vocabolario, grammatica, stile di scrittura e tecniche per raccontare una storia. Con una precisazione da tenere sempre a mente: la vita non deve essere a sostegno dell’arte. È semmai quest’ultima a potere al massimo impreziosire la prima.
Quindi, pagina dopo pagina, si entra nell’universo kinghiano e si procede in un ricco e quanto mai delizioso viaggio propedeutico dentro le vene della scrittura e di chi la fa nascere. Lezione prima: mai imbellettarla, sarebbe come vestire da sera il cane di casa. La parola è solo rappresentazione di un significato che la scrittura non è mai in grado di cogliere alla perfezione. Perché quindi complicarsi la vita alla ricerca di un termine che nel migliore dei casi non potrà mai dire meglio di quello più umile che vorreste usare?
Si gira attorno alla lingua. La grammatica o la si impara leggendo e conversando o non la si assimila mai. La lettura favorisce l’apprendimento del processo di creazione e chi ritiene di non aver tempo per coltivarla non potrà mai averne per scrivere. E giù più nello specifico. I verbi? Sono di forma attiva o passiva. Allontanarsi il più possibile da questi ultimi. L’avverbio non è mai vostro amico.
Per poi passare alla narrazione vera e propria. Le storie non nascono in un Magazzino delle Idee né esiste un Supermercato apposito. Si creano dal niente: due pensieri scollegati che si annodano. Nessuna ricerca dell’Illuminazione celeste, quindi, ma capacità di riconoscerli quando si presentano. La descrizione crea la realtà narrata e i dialoghi danno vita ai personaggi. Comanda la storia non l’approfondimento psicologico, comanda la vicenda non il tema. Fuggite i seminari o i corsi di scrittura creativa, fanno bene solo alle tasche e alla prosopopea di chi li tiene (finalmente un po’ di aria pulita sul tema in un capitolo divertentissimo e caustico). Come scegliere il proprio lettore Ideale (nel suo caso la moglie Tabby). Come mettersi alla ricerca di un editor o di un agente.
King parla delle sue creazioni, mette in pagina periodi narrativi di colleghi anche celebri per evidenziarne il risvolto involontariamente grottesco e lo stesso fa con le sue prime bozze. Una visita guidata tra errori e orrori dunque, con la leggerezza di chi sa tirare un coltello con due dita tenendolo dalla lama. E la sentenza finale: uno scribacchino non potrà mai diventare uno scrittore decente, né è possibile trasformare in eccezionale uno pur bravo. Ma è possibile che un autore decente diventi valido.
E il consiglio finale: non innamorarti mai del tuo supposto talento. Continua a leggere e scrivere, prosegui a incuriosirti su tutto. E poi torna di nuovo a leggere e scrivere. Non è necessario diventare scrittore. La scrittura non è vita. Anche se può diventare strumento di resurrezione.
Stephen King – On writing (Autobiografia di un mestiere), Frassinelli, pagg. 320, euro 20
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