Saif ur Rehman Raja

Saif ur Rehman Raja Hijra


Fandango Libri, 2024, pagine 228, 16,50 euro. Romanzo | Emergenti | autobiografie

28/08/2024 di Ambrosia J. S. Imbornone

Quando si discute di leggi sull’immigrazione o sulla cittadinanza, spesso è come se si parlasse di entità astratte, in nome di idee, ideologie, pregiudizi e non si tenesse conto che chi arriva in un Paese non è un numero, ma una persona, un individuo, con una storia vera e tangibile. Saif ur Rehman Raja, nato nel 1994 a Rawalpindi in Pakistan tra i colori e il profumo delle spezie e trasferitosi in Italia a undici anni, nel suo romanzo autobiografico Hijra osserva a tal proposito:

Sembra che noi stranieri siamo sempre l’oggetto della conversazione, mai i soggetti. Siamo le opinioni diversificate sulla cittadinanza, che sia sanguinis, culturae. Siamo i numeri che arrivano invadendo. Siamo i barconi che affondano e che qualcuno vorrebbe salvare. Siamo la speranza di alcuni affinché non partiamo dai nostri paesi. […] Agli occhi della gente, noi siamo tutto: proiezioni, aspettative, paure, angosce, curiosità, gruppi, etnie, religioni, colpevoli, incivili, animali. Agli occhi della gente, noi siamo tutto, fuorché esseri umani individuali”.

Il suo libro allora è prezioso proprio perché consente di riflettere da vicino su un percorso reale, il suo, seguito dalla nascita alla sua vita di giovane adulto, con uno stile appassionante e diretto, semplice e coinvolgente, perché riporta gli eventi e i suoi pensieri come sono, nella loro essenza, nella loro drammaticità o nella loro gioia, con schiettezza e profondità, sobrietà e naturalezza. La scrittura d’altronde è sempre stata fondamentale per Raja, fin da quando aveva otto anni e gli regalarono un quaderno e una penna: “Quel diario diventa l’adulto di cui ho bisogno. Racconto i miei desideri, i miei sogni, la mia tristezza, le mie paure. Quel diario diventa l’unico con cui parlo in casa”. E da questa lunga consuetudine e abitudine a scrivere deriva probabilmente proprio il fascino di questo libro, quello dell’autenticità. La scrittura di Saif ur Rehman Raja è delicata nel suo intimismo sincero, regala frasi che, tra impressioni sensoriali e risonanze interiori, scolpiscono il reale e l’anima dell’autore in modo molto vivido, ma soprattutto appunto gronda verità, senza costruzioni narcisistiche, auto-indulgenze e maschere fittizie.

Il romanzo, che risulta avvincente ed emozionante, ha per fortuna uno splendido lieto fine, ma si addentra nelle sofferenze che hanno segnato la vita del protagonista, come il dolore dell’abbandono, subïto quando la madre e i fratelli seguirono il padre in Italia, lasciandolo con gli altri familiari in Pakistan. Narra poi l’arrivo a Belluno e ci mostra in modo concreto cosa si provi a vivere il cosiddetto “doppio esilio”, a sentirsi ormai ospiti nella propria terra perché ritenuti i “nipoti italiani” e messi ai margini dagli italiani per il colore della propria pelle, che insospettisce nei controlli, “autorizza” a dare del “tu”, talora scarta a prescindere da un posto di lavoro. Ancora, l’autore racconta l’indifferenza con cui fu accolto a scuola quando, da essere un “secchione” in Pakistan, si era ritrovato inizialmente molto spaesato in Italia, non conoscendo ancora la lingua; il primo giorno tra i banchi, mentre cercava persino di respirare piano, per non avere tutti gli occhi addosso, una semplice caduta accidentale di un astuccio gli procurò pure un rimprovero secco sul dovere di seguire le regole italiane. Oppure ci parla dei compagni di classe che lo prendevano in giro in continuazione in quanto musulmano, eppure si erano “dimenticati” che lo fosse e gli avevano cucinato carne di maiale; ci parla del difficile rapporto con il padre, o di un’aggressione che un carabiniere in caserma gli disse che non valeva la pena denunciare, perché, come omosessuale dichiarato, alla fine era lui a “provocare” (!) gli altri.

In questo libro ci sono allora incomprensioni, maltrattamenti, violenze, insulti subiti come pakistano, come omosessuale e pakistano omosessuale (chiamato inizialmente anche dal padre, in senso dispregiativo in urdu, “hijra”), che da bambino veniva picchiato se voleva pettinare i capelli alle cugine o giocare con le bambole, ma ci sono anche amicizia sincera, tanto amore e una speranza bella, forte, resistente, travolgente, piena di fiducia, quella di un futuro “meticcio” in cui si impari a rispettare l’altro, a rapportarsi con rispetto, curiosità e interesse al suo mondo affascinante e composito e non si chieda a nessuno di scegliere una delle sue terre, perché sono tessere del suo puzzle, perché è “la somma delle città” in cui ha vissuto, è fiero di essere “ibrido” e “tutti abbiamo molteplici strati di identità”: sarà “l’inizio della pace”.


Saif ur Rehman Raja, 30 anni, è nato in Pakistan, si è trasferito a Belluno a undici anni e vive a Bologna da quando ne ha venti. Si è laureato in Scienze pedagogiche, con una tesi dal titolo Tradimento e gelosia nelle monogamie e non monogamie che ha vinto il Premio UAAR. In passato ha collaborato con l’Università di Bologna in progetti di ricerca sulle famiglie pakistane residenti in Italia, e attualmente è dottorando all’Università di Siena in Apprendimento e innovazione in contesti sociali e di lavoro. I suoi ambiti di ricerca riguardano principalmente la multiculturalità e la Critical Race Theory, con un focus sulle dinamiche di potere e sulle pratiche di razzializzazione come strumento della classe dominante (europea principalmente) per mantenere lo status quo della bianchezza. Con questo romanzo è stato segnalato al Premio Calvino 2022 ed è stato finalista con un suo testo al Premio Calvino 2023 Racconti.