Roberto Franchini

Roberto Franchini Gramsci e il jazz


Editrice Biblioteka, collana Formiche, 2024, 72 pp., 12 euro Musica | Saggi | Storia

10/10/2024 di Franco Bergoglio
Digressione personale. Indago il rapporto tra Gramsci e il jazz dai tempi della mia tesi di laurea, dedicata al rapporto tra jazz e politica. All’epoca mi illuminai come un albero di Natale la vigilia quando, facendo ricerche per la tesi, mi imbattei in un saggio di Luigi Spina (allora recente, del 1989); questi rileggeva i due frammenti tratte dalle lettere dove il pensatore sardo nominava il jazz. Trovare il jazz in Gramsci, seppure per due risicati frammenti, contribuiva al senso generale del mio lavoro. Esiste un rapporto serio e stabile tra jazz e politica? C’è: lo confermano storici di valore assoluto come Eric Hobsbawm, critici musicali come Carles & Comolli, Giampiero Cane e Leroi Jones/Amiri Baraka, lo dicono musicisti
fondamentali come Max Roach, Archie Shepp, Charlie Haden o Giorgio Gaslini. Ho sempre pensato che bisogna stare seduti sulle spalle dei giganti quando si maneggiano concetti di peso, o ambigui, o potenzialmente esplosivi.

Gramsci che si interessa al jazz è un bel gigante del pensiero sul quale salire per vedere cosa sbuca all’orizzonte. Poco importa che i frammenti rappresentino solamente due piccoli spunti. C’era del materiale sul quale lavorare e scrivere. Le pagine gramsciane della mia tesi si sono poi trasferite in un articolo per l’Istituto Storico della Resistenza di Biella e Vercelli, poi nel primo libro, hanno fatto capolino in un secondo e per l’ultima volta, ampliate, sono entrate nel saggio Hot Jazz and Cool Media (2010) che ho prodotto per la rivista De Musica diretta da Carlo Serra.
Le due lettere gramsciane sul jazz del 1927-28 contestualizzate e inserite nel periodo storico ci possono dire parecchio: sulle intuizioni di Gramsci, sulla comunicazione di massa che si andava profilando negli anni Venti e sulla musica di quel periodo, per altri versi “ruggente”.
L’agile libriccino di Roberto Franchini parte da qui, raccoglie le suggestioni di Spina - e anche del sottoscritto, penso di poter dire, vista l’abbondanza di riferimenti alle connessioni che ho prodotto nei miei scritti. Franchini aggiunge altri materiali, ravvivando nuovamente l’interesse verso il tema. È bello, per chi come me ha lavorato per diversi anni alla relazione Gramsci-jazz, vederla rifiorire.
Provo a prendere qualche spunto originale da commentare. Scrive l’autore: “oltre alla sociologia dei mass media, con la quale aveva iniziato la sua analisi, Gramsci utilizza una sorta di psicopatologia delle masse (...). In generale, Gramsci pensava che l’egemonia delle culturale sarebbe stata appannaggio di una cultura molto elementare e ripetitiva, poco incline alla riflessione, capace di impadronirsi del corpo prima ancora che della mente”. In questo contesto, scrive Franchini, si inserisce “la febbre del jazz” e la sua critica. “L’ipotesi dell’utilizzo della musica con un intento di controllo sociale può essere parso un limite, io ritengo invece sia la dimostrazione di una ricerca nuova verso le manifestazioni della cultura di massa. (...) Gramsci intuiva e descriveva la volontà di destrutturare l’autocontrollo personale di milioni di
persone, in particolare giovani, per guidarli verso forme di controllo più sofisticate. Il mondo psichico al quale accennava Gramsci era ed è un terreno egemonico pubblico e collettivo, non solo privato e individuale”.
Tra le aggiunte alla materia che porta il libro Gramsci e il jazz, si trova senza dubbio il ripescaggio di vecchi articoli “reazionari” tratti dalla stampa italiana, dove un compositore come Mascagni si augura che il jazz venga proibito o il giornalista del Corriere della Sera Arnaldo Fraccaroli - che secondo l’autore potrebbe aver ispirato Gramsci- il quale lo racconta tra il serio e il faceto con una sorta di rapsodia futuristica: “...il jazz, il trionfatore del giorno e della notte, l’arte di stasera e di domani, la sinfonia dell’irrequietezza, la celebrazione del mal di mare, la scatola di conserva del sentimento, il dinamometro dell’ora elettrica”. Fraccaroli prosegue complimentandosi con il jazz per la rapida carriera nel conquistare il mondo, nel diventare il “simbolo di un’epoca”, e qui il giornalista prefigura il nome alternativo con cui
verranno definiti i ruggenti anni Venti da Francis Scott Fitzgerald in avanti: l’età del jazz.

Gramsci, dal carcere, intuisce che c’è materia su cui ragionare, ma non gli è concesso molto di più. Scrive Franchini:
“mi domando cosa avrebbe fatto Gramsci se avesse riacquistato la libertà e fosse tornato nella sua vera città adottiva, ovvero Torino, una delle capitali del jazz in Italia, assieme a Milano, Genova e Roma”. Uno dei momenti più interessanti del volume ricorda come Torino sia stata anche la città dove Gramsci ha esercitato la funzione di critico teatrale (e a volte musicale, scrive Franchini) per le pagine dell’Avanti. Torino è senz’altro una delle prime città italiane a mostrarsi permeabile al jazz, come ha documentato lo storico jazz Gian Carlo Roncaglia, ma, quando arrivano i nuovi balli sincopati e Louis Armstrong vi suona il suo primo concerto italiano, nel 1935, Gramsci è ormai lontano da tanto tempo dalla città, alle prese con il duro carcere fascista...

 

 

Roberto Franchini, giornalista, scrittore e saggista, è stato direttore dell’Agenzia di informazione e comunicazione della Regione Emilia-Romagna, presidente della Fondazione Collegio San Carlo di Modena e del Festival filosofia. Di recente ha pubblicato Il secolo dell’orso (Bompiani), Prigioniero degli altipiani (La nave di Teseo) e L' Ultima nota. Musica e musicisti nei lager nazisti (Marietti 1820)