C’è un pezzo d’Europa che si sta staccando, che stiamo lasciando dietro di noi, che abbiamo dimenticato dietro la cortina di ferro. Quando la cortina di ferro è caduta, quando anche il muro di Berlino è stato abbattuto dai venti di una nuova speranza, abbiamo continuato a ignorarla, a non considerarla. Non per supponenza o razzismo, credo, ma più semplicemente per ignoranza, per non conoscenza del nostro passato. Quando è scoppiata la guerra in Bosnia, l’abbiamo sentita lontana, una guerra non nostra; chi si scannava erano etnie primitive, slavi, mezzi nomadi, mezzi zingari, gente che era stata capace nei secoli solo di far la guerra, di ammazzarsi, in proprio o al soldo degli eserciti di tutto il continente. Uomini sanguinari, vendicativi. No, quei luoghi dai nomi impronunciabili, non erano Europa; quelle persone che morivano, quelle donne che si disperavano dentro lo schermo, quegli orrori a poche centinaia di chilometri da noi – più vicini di Berlino – non li abbiamo mai considerati gente di casa nostra. In pieno XX secolo non avremmo mai accettato un assedio lungo tre anni a Parigi. L’abbiamo accettato senza battere ciglio a Sarajevo. È dalla consapevolezza di questa perdita, da questa ferita non ancora rimarginata, che si muove Paolo Rumiz.
In Europa l’Oriente non c’è più, l’hanno bombardato a Sarajevo, espulso dal nostro immaginario, poi l’hanno rimpiazzato con un freddo monosillabo astronomico; “Est”. Ma l’Oriente era un portale che schiudeva mondi nuovi, l’Est è un reticolato che esclude. Oggi di certi luoghi nemmeno conosciamo la geografia; Ucraina, Romania, Bulgaria, stentiamo a collocarle, immaginiamoci le città. È come se una nebbia fitta fosse calata su una parte del nostro mondo, sulla nostra specularità. Una parte forse necessaria al nostro equilibrio. Fino a cento anni fa Vienna e Istanbul erano più vicine e avevano più rapporti – a volte anche di guerra – di quanti ne abbiamo noi con la Svizzera. Imperi che il Danubio, nel suo lento fluire tra monti e pianure, univa e divideva. l’Islam e il mondo cristiano si conoscevano, mentre noi fatichiamo a considerare cristiani gli appartenenti alla chiesa ortodossa.
Sento che l’Europa perde un pezzo di se stessa. Oggi noi occidentali sappiamo di Istanbul, Odessa o Sofia infinitamente meno di cent’anni fa, quando nessuno parlava pomposamente di Europa e di allargamenti a Levante.
Paolo Rumiz è viaggiatore che ama sentire gli odori, vedere, toccare, parlare con le persone. È come un medico che ausculta il reale. E fa di questo suo viaggiare una condizione delle scrivere, una necessità a cui non riesce a sottrarsi.
Mi chiedo se la forza del racconto non nasca nell’uomo da millenni di cammino, se il narrare (assieme al cantare) non nasca dall’andare. E se il nostro mondo abbia disimparato a raccontare semplicemente perché non viaggia più. Ecco, l’essenza del libro è tutta qui; e iniziare a leggere è un po’ mettersi in viaggio, è un po’ provare a comprendere, perché, come racconta a Rumiz un parroco in friulano stretto,
Qui si toccano due mondi: l’Occidente, dove la verità è adeguamento della cosa all’intelletto; e l’Oriente, dove la verità è ciò che sembra che la cosa sia.