Paolo Rumiz

Paolo Rumiz È oriente


Feltrinelli, 2003

di Francesco Ongaro
C’è un pezzo d’Europa che si sta staccando, che stiamo lasciando dietro di noi, che abbiamo dimenticato dietro la cortina di ferro. Quando la cortina di ferro è caduta, quando anche il muro di Berlino è stato abbattuto dai venti di una nuova speranza, abbiamo continuato a ignorarla, a non considerarla. Non per supponenza o razzismo, credo, ma più semplicemente per ignoranza, per non conoscenza del nostro passato. Quando è scoppiata la guerra in Bosnia, l’abbiamo sentita lontana, una guerra non nostra; chi si scannava erano etnie primitive, slavi, mezzi nomadi, mezzi zingari, gente che era stata capace nei secoli solo di far la guerra, di ammazzarsi, in proprio o al soldo degli eserciti di tutto il continente. Uomini sanguinari, vendicativi. No, quei luoghi dai nomi impronunciabili, non erano Europa; quelle persone che morivano, quelle donne che si disperavano dentro lo schermo, quegli orrori a poche centinaia di chilometri da noi – più vicini di Berlino – non li abbiamo mai considerati gente di casa nostra. In pieno XX secolo non avremmo mai accettato un assedio lungo tre anni a Parigi. L’abbiamo accettato senza battere ciglio a Sarajevo. È dalla consapevolezza di questa perdita, da questa ferita non ancora rimarginata, che si muove Paolo Rumiz. In Europa l’Oriente non c’è più, l’hanno bombardato a Sarajevo, espulso dal nostro immaginario, poi l’hanno rimpiazzato con un freddo monosillabo astronomico; “Est”. Ma l’Oriente era un portale che schiudeva mondi nuovi, l’Est è un reticolato che esclude. Oggi di certi luoghi nemmeno conosciamo la geografia; Ucraina, Romania, Bulgaria, stentiamo a collocarle, immaginiamoci le città. È come se una nebbia fitta fosse calata su una parte del nostro mondo, sulla nostra specularità. Una parte forse necessaria al nostro equilibrio. Fino a cento anni fa Vienna e Istanbul erano più vicine e avevano più rapporti – a volte anche di guerra – di quanti ne abbiamo noi con la Svizzera. Imperi che il Danubio, nel suo lento fluire tra monti e pianure, univa e divideva. l’Islam e il mondo cristiano si conoscevano, mentre noi fatichiamo a considerare cristiani gli appartenenti alla chiesa ortodossa. Sento che l’Europa perde un pezzo di se stessa. Oggi noi occidentali sappiamo di Istanbul, Odessa o Sofia infinitamente meno di cent’anni fa, quando nessuno parlava pomposamente di Europa e di allargamenti a Levante.
Paolo Rumiz è viaggiatore che ama sentire gli odori, vedere, toccare, parlare con le persone. È come un medico che ausculta il reale. E fa di questo suo viaggiare una condizione delle scrivere, una necessità a cui non riesce a sottrarsi. Mi chiedo se la forza del racconto non nasca nell’uomo da millenni di cammino, se il narrare (assieme al cantare) non nasca dall’andare. E se il nostro mondo abbia disimparato a raccontare semplicemente perché non viaggia più. Ecco, l’essenza del libro è tutta qui; e iniziare a leggere è un po’ mettersi in viaggio, è un po’ provare a comprendere, perché, come racconta a Rumiz un parroco in friulano stretto, Qui si toccano due mondi: l’Occidente, dove la verità è adeguamento della cosa all’intelletto; e l’Oriente, dove la verità è ciò che sembra che la cosa sia.

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