Paolo Milone

Paolo Milone L`arte di legare le persone


Einaudi Super ET, 2021, 200 pp., 22 euro Narrativa Italiana | Poesie

28/03/2023 di Silvano Rubino
Paolo Milone, psichiatra, in servizio in un grande ospedale genovese per oltre 30 anni, non lascia spazio a equivoci sulla sua posizione, sin dal titolo del libro L’arte di legare le persone. Lui crede che la contenzione dei malati di mente non solo sia necessaria, ma anche utile, al paziente stesso. Non è una scelta di comodo per chi lo ha in cura, ma un modo per riuscire a curarlo nel miglior modo possibile. E poi, nel libro, dice anche altre cose: non crede a quelli che dicono che la malattia mentale non esiste, non ama la psichiatria basagliana, tira qualche frecciata a chi ha fatto carriera medica attraverso la politica più che sull’esperienza sul campo, dice che i farmaci sono una benedizione e che salvano vite e mitigano sofferenze altrimenti imponderabili.

Non ho le competenze, né penso questa sia la sede, per aprire un dibattito su questo aspetto del libro di Milone (basta cercare in rete per capire che le polemiche all’uscita del libro ci sono state già, eccome). La legge Basaglia è stata una vera rivoluzione, soprattutto culturale. E come tutte le rivoluzioni, forse, ha subito il destino di essere vagamente mitizzata, anche grazie alla vasta produzione di film, romanzi, musica, che da quella sacrosanta storia ha tratto spunto e ispirazione. E come tutte le rivoluzioni, soprattutto in Italia, divide il pubblico e anche gli addetti ai lavori in tifoserie opposte.

Paolo Milone restituisce in questo suo libro strano, vagamente crudele per quanto è disincantato, la voce di uno che ha lavorato in un reparto urgenze per decenni, che ha visto come la malattia mentale non sia scomparsa con la chiusura dei manicomi, che sia finita per essere una faccenda diversa, ma non per questo sconfitta, soprattutto non sconfitta la sofferenza che porta con sé.
Milone non rimpiange certo i manicomi, le istituzioni totali. Ma rifiuta l’idea di trattare i malati di mente come malati diversi da chi ha una patologia come il cancro o una cardiopatia: crede che vadano curati, a volte forzando anche una volontà di cui non sono pienamente in possesso. Rifiuta l’idea che i malati, nascosti nelle loro case, affidati alle cure di familiari o peggio, rinchiusi nelle loro solitudini, nella condizione di alcolisti, tossicomani o senzatetto, escano dall’orizzonte della società solo perché i manicomi non ci sono più.

Attenzione, però: non fatevi ingannare dalle righe fin qui lette. Il libro di Milone non è un saggio, non è un pamphlet politico. Anzi, penso che lui, leggendo queste mie righe che traggono dal suo scritto delle conclusioni “politiche”, si irriterebbe alquanto. Il libro è una strana forma di memoir, un romanzo autobiografico che non segue un ordine cronologico, fatto di piccoli frammenti di prosa lirica, di brevi dialoghi immaginari con i pazienti, con i colleghi, di scorci della sua (e mia) Genova, del centro storico da sempre abitato da creature marginali e fragili. Piccoli frammenti di vita vissuta in reparto, di suicidi sventati, di suicidi realizzati, di sofferenze mitigate, di successi e fallimenti, di TSO, di contenzioni, di farmaci, di innamoramenti, tenerezza, comicità. Di tanta sofferenza, di quella sofferenza maledetta e troppo spesso marginalizzata nel dibattito pubblico, che addirittura continua a stigmatizzarla, che si chiama malattia mentale.

Si esce dal libro un poco stropicciati, come dopo una piccola discesa agli inferi, accompagnati da una persona che ogni giorno per 30 anni si è affacciata ai bordi dell’abisso. Se ne esce senza risposte definitive, ma con tante domande. Com’è giusto che sia, se non ci si vuole fare un’idea e non solo essere tifosi.