Mirt Komel - Intervista

Mirt Komel - Intervista Il tocco del pianista


Carbonio Editore, 2019 Narrativa Straniera | Romanzo | musica

21/02/2020 di Marco Denti
Piccoli e grandi poteri della musica filtrano nel romanzo di Mirt Komel, Il tocco del pianista, che,  nelle peripezie del suo protagonista, Gabriel Goldman, si rivela un intenso viaggio nelle profondità della percezione della personalità e del mondo. Ne abbiamo parlato con lo stesso Mirt Komel che ha risposto con generosità alle nostre domande, prendendosi un caffè, e una mattina libera dagli studi e dagli insegnamenti filosofici.

 

Nella vicenda di Gabriel Goldman, il protagonista di Il tocco del pianista, sembra esserci al centro il complesso rapporto tra identità e memoria. Come si è sviluppata la personalità di Gabriel in questo senso?

 
Sì, certo, il romanzo si può leggere anche in questo modo, specialmente se consideriamo che è fatto di due narrazioni parallele: da una parte il “presente”, che comincia con il suo risveglio nell’ospedale, dall’altra i “flashback” nel passato, dove cerca una spiegazione per quello che gli è successo, cioè la caduta in coma e il risveglio con una peculiare fobia del tatto, che però gli permette di suonare il pianoforte così come non l’ha mai suonato, e perciò di diventare un pianista, e di trovare la propria identità. Non è così che, in un modo o nell’altro, succede a tutti? Che ci ritroviamo, che ritorniamo a noi stessi solo dopo “una caduta”, e che, da lì, la nostra identità è frutto di una ricostruzione retrospettiva? 

 

La musica ha un ruolo fondamentale nella memoria di Gabriel come in quella di tutti. Qualcuno ha detto che ascoltiamo cose che già conoscevamo, senza saperlo. Qual è l’importanza della musica nella definizione di un’identità?

 
La musica, che possiamo collocare a metà strada tra i suoni in generale e la voce umana come base del linguaggio e mezzo del pensiero, ha un ruolo più fondamentale di quello che si crede. Non solo nel senso che ci identifichiamo con un certo tipo di musica e da lì deriviamo la nostra identità (classica, rock, punk, metal, pop, etc.), ma nel senso più fondamentale che possiamo cogliere nel termine tedesco di Bildung, come educazione e formazione di una persona. Se posso parafrasare, caricare e spingere quella famosa frase un po’ più lontano direi: “Dimmi, cosa ascolti, e ti dirò, non solo chi sei, ma anche quale sarà il tuo destino.”

 

La musica è una questione che riguarda direttamente l’udito, che ha un valore reale rispetto all’equilibrio. Dato che in un passo del romanzo questo dettaglio viene ricordato in modo esplicito, secondo te, quanto può influire la musica sull’equilibrio, in generale?

 
Nel romanzo cerco soprattutto di fare una connessione tra il senso dell’udito, che è ovviamente il senso musicale, con il senso del tatto: Il tocco del pianista. I sensi sono, tradizionalmente parlando, cinque, ma se ci pensiamo un po’ su, vediamo che tutti sono riconducibili al tatto: non solo l’assaporare, che richiede il contatto, ma anche il guardare e l’udire e l’annusare possono essere concepiti come forme di tatto a distanza, come dita prolungate del corpo, con il quale stiamo in contatto col mondo. Ed ecco, questo è il ruolo dei sensi nella nostra vita: metterci in contatto con il mondo, prima di tutto per orientarci e per sopravvivere, ma anche per tenere l’equilibrio nel senso più ampio del termine.

 

La storia di Gabriel è anche quella di un grande solitudine nel contesto della massa che, nello specifico, è rappresentata da New York. Perché New York, una città dove la memoria e il futuro si sovrappongono in continuazione?

 
E sì, è quello che succede, credo, in tutte le grandi città, cioè che, più persone vivono ammucchiate insieme, più uno si trova da solo, come se la massificazione della società procedesse mano a mano con l’atomizzazione dell’individuo. E New York è così: la città più “europea” dell’America del Nord mi è servita anche per fare una riflessione su quello che succede qua, da noi, nel vecchio continente. Comunque la New York di Gabriel non esiste più, e non solamente perché è una città che cambia, non solo di anno in anno, ma di giorno in giorno, ma anche perché è stata creata, o ricreata nel romanzo come uno spazio singolare dove avviene Il tocco del pianista

 

New York ha avuto anche un ruolo importante, se non definitivo nell’evoluzione della moderna musica pop. Nel parte finale del romanzo dedichi un ampio spazio al valore della musica oggi, e al suo rapporto con i media. Puoi sintetizzare qui il tuo pensiero?

 
La riflessione che faccio nel romanzo sulla musica odierna è data dal maestro di musica di Gabriel, Alessandro Savski, che è un personaggio modellato a metà strada tra il filosofo tedesco Adorno e il pianista e compositore russo Alexander Scriabin. Per tutti noi cinque (me incluso) la musica di oggi per la maggior parte rappresenta la trasformazione della musica in quello che gli inglesi chiamano “entertainment”, e quello che il greco definisce come “psychagogia”. Ed è anche per questo che Gabriel, il portavoce della difesa della musica classica, si sente a disagio nel mondo di oggi, dove anche la musica classica è stata assorbita dai media e dalla tecnologia moderna. E per parafrasare Brecht: “Ogni volta che sento Beethoven squillare su un telefonino prendo la pistola.”

 

Conta, in definitiva, anche il rapporto tra musica e gusto, che Gabriel esprime a più riprese nel corso del romanzo?

 
Anche oggi per il gusto vale quello che ha scritto Cicerone: “De gustibus non est disputandum”, ovvero sui gusti non si discute. Solo che io sono più dalla parte di Hannah Arendt, che, facendo un salto mortale mentale, ha fatto una connessione geniale tra l’estetica e la politica basandosi sulla Critica del giudizio di Kant: la “capacita di giudizio” differisce dalla ragione pratica e dalla ragione “pura” nel fatto che domanda il consenso degli altri, che ha una dimensione intersoggettiva, dove la questione di quello che ci piace a livello artistico combacia con quello che ci piace a livello politico. Per dirla breve: la questione di quello che ci piace come arte è intrinsecamente connessa con la politica perché in tutti i due casi definiamo come vogliamo che appaia il mondo circostante. Allora non c’e da stupirsi se MTV ha influenzato, nel suo periodo, non solo semplicemente un certo modo di vivere, ma ha anche promosso una certa ideologia che non si può definire in altro modo che “capitalistica”.

 

Il tocco del pianista, per via della tua formazione filosofica, è ricco di riferimenti specifici, ma dal punto di vista della letteratura, della narrativa, e infine della musica, a chi ti si sei ispirato?

 
A dire il vero Il tocco del pianista è nato all’incrocio di molte letture ed esperienze diverse, che giravano più sulla questione del tocco che sulla questione della musica. Se dovessi identificare un punto di partenza direi che dopo aver letto il Noli me tangere di Jean-Luc Nancy ho avuto come un’epifania, che ha avuto riscontri tattili anche nella mia vita reale. Dopo Nancy ho scoperto la musica di Glenn Gould e la sua particolare fobia del tatto che combaciava con la necessità del contatto con il pianoforte, del quale mi sono innamorato anch’io, che prima di incominciare a scrivere il romanzo non avevo mai avuto un’educazione musicale. Ne è seguito l’acquisto di una vecchia chaika russa che ho cominciato a suonare imparando vari pezzi a memoria, da Bach a Beethoven. E in quel periodo lì ho scoperto anche Vladimir Nabokov, che ho letto dal principio alla fine: tutti i suoi romanzi, tutti i racconti, e quando ho finito, anche le sue Lettere a Vera. Dopo sono venuti anche altri autori di romanzi classici sulla musica, come ovviamente Thomas Mann e il suo Doctor Faustus, o Thomas Bernhard con Il soccombente dove dopo tutto Glenn Gould figura in modo fondamentale. Ecco, da questa combinazione è nato il desiderio di suonare il pianoforte, di studiare la filosofia della musica, e di scrivere un romanzo sul tocco del pianista.

 
(Fotografia di Maria Elena Fantasia, per cortese concessione.

Marco Denti lo puoi leggere anche qui:

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