
Mark Lanegan Sing Backwards and Weep: a memoir - (in inglese)
White Rabbit, 2020 Biografie | Musica
14/05/2020 di Tiberio Snaidero
La discesa agli inferi di Lanegan, variamente soprannominato Dark Mark oppure Old Scratch, viene riportata dall’autore con puntualità disturbante. Non si tratta di un processo catartico di confessione né al contrario della testimonianza di un compiaciuto maledettismo. Non cerca scuse, Dark Mark, non attribuisce al suo exemplum alcuna valenza moraleggiante né pretende di insegnare alcunché. Ha prodotto parole, cosa non nuova per un songwriter che nel processo creativo di una canzone è sempre partito dalle liriche per poi costruirci intorno una struttura musicale. Solo che stavolta la musica non c’è. Rimangono i temi poetici ed esistenziali di Lanegan, gli stessi che si trovano nel suo canzoniere: l’angoscia, il desidero, la nostalgia, l’amore, il dolore, la morte, la follia e, soprattutto, la droga.
L’eroina è stata per lunghissimo tempo l’unico, vero grande amore di Old Scratch. Lo ribadisce lui stesso a più riprese nelle pagine di questa autobiografia. A questa devozione ha sacrificato donne, amici, passioni. Per anni privo di qualsivoglia rispetto per sé stesso e assolutamente impermeabile alle remore morali, l’attività di Lanegan è stata a Ellensburg e poi a Seattle quella di spacciatore di crack e di eroina, i cui proventi servivano a finanziare il numero sempre crescente di iniezioni di brown sugar che quotidianamente la spaventosa dipendenza cui era approdato gli imponeva. Il terrore dei withdrawals, ovvero delle crisi di astinenza con i crampi, i conati di vomito e le scariche di diarrea inarrestabili, l’emicrania inabilitante e l’angoscia incontrollabile ad esse legate diventa il motore di una vita totalmente dedicata alla ricerca quotidiana, ovunque si trovasse, nei quartieri più malfamati di tutti luoghi in cui la sua attività di musicista l’avesse condotto, dello smack necessario al prossimo fix. Apprendere che questa è stata per anni la quotidianità del grandissimo cantante che Mark Lanegan è risulta piuttosto scioccante per il lettore che come appassionato di musica aveva apprezzato i dischi degli Screaming Trees e la produzione solista degli anni Novanta di Dark Mark senza avere idea di quanto la vita on the road dell’autore di The Winding Sheet fosse sussidiaria, al 100%, al bisogno di farsi. Se leggere i numerosi aneddoti del junkie Lanegan ‒ straordinari quelli riferiti al tour europeo di metà degli anni Novanta con gli Screaming Trees, quando ad Amsterdam Old Scratch trascorre l’intera, gelida notte avanti e indietro tra l’hotel e la piazza degli spacciatori che lo fregano e poi lo riempiono di botte ‒ non permette al lettore di posare il libro, il cui stile bukowskiano non fa staccare gli occhi dalla pagina, ancora più godibili risultano i passaggi che hanno a che fare con la produzione musicale e la frequentazione di altri rocker.
Restano dunque nella memoria la descrizione di Gary Lee Conner, il gigantesco chitarrista obeso, laconico e ipocondriaco che guida in modo dittatoriale la prima fase della carriera dei Trees; il rispetto che sconfina nell’adorazione di un fragilissimo Kurt Cobain, la cui disperata richiesta di aiuto alla vigilia del suicidio Lanegan ignora; le paranoie, la generosità e il talento di Layne Staley, che Mark considera una sorta di gemello e col quale collabora nello splendido progetto Mad Season; la cordialità di Chris Cornell, che produce con amichevole professionalità Uncle Anesthesia, il primo album inciso dai Trees per una major; lo stile di Nick Cave, che dopo essersi recato nell’appartamento di Lanegan per procurarsi e iniettarsi un fix di eroina, ne esce dopo qualche ora e si imbatte, elegantissimo nel suo impeccabile tre pezzi, nei vicini di casa di Mark, che da allora lo guardano con reverenza; la surreale antipatia, arroganza e maleducazone di Liam Gallagher, che, sempre accompagnato da due energumeni, durante il tour americano del 1996 che vede gli Screaming Trees aprire per gli Oasis prende di mira Lanegan, salvo abbandonare la tournée e volarsene in Inghilterra alla vigilia dell’ultima data a Miami, dove lo attendeva il redde rationem; il genio di Jeffrey Lee Pierce, leader dei Gun Club e vero e proprio idolo di Lanegan, che non riesce a riprendersi dall’abbandono della fidanzata e precipita in una spirale autodistruttiva che lo conduce all’annientamento; e, ultima ma non per ultima, la vedova di Cobain, la chiacchierata Courtney Love, che salva letteralmente Mark dal baratro, finanziandone il lungo soggiorno nel reparto dipendenze di un ospedale psichiatrico di Los Angeles, dove Lanegan, oramai braccato a Seattle sia dalla polizia che dagli spacciatori, riesce finalmente a togliersi la scimmia dalla spalla. Si resta pure straniti nell’apprendere come per comporre il suo primo album solista, il delizioso, acustico The Winding Sheet (1990), Old Scratch abbia dovuto acquistare un libro per imparare qualche accordo di chitarra, essendo al tempo ancora del tutto incompetente come strumentista; o come per realizzare il successivo Whiskey for the Holy Ghost (1994) ci abbia messo ben quattro anni, a causa certo della fiera dipendenza da alcaloidi ma pure per la paranoica determinazione a sfornare un capolavoro che costrinse lui e i collaboratori a reincidere centinaia di volta le stesse tracce.
Quando il libro finisce, si provano grande dispiacere e tristezza. Scritto con uno stile da narratore vero, asciutto e spietato come nella migliore tradizione letteraria americana, Sing Backwards and Weep ammalia per le sue qualità estetiche ma pure per il sorprendente candore con cui Lanegan guarda dritto negli occhi il proprio passato di solitudine e delinquenza, confessa l’assenza di affetti famigliari e le sue molte fragilità, rievoca le amicizie disperate e le donne che lo hanno abbandonato. Eppure, sembra voler dirci, nonostante abbia da sempre corteggiato la morte, sono ancora qui e non so nemmeno io capire il perché.