
Lucio Mastronardi Il maestro di vigevano
1962 (Einaudi € 9,80)
di Francesco Rossini
Il catrame è un olio bituminoso che si usa per isolare le chiglie delle navi e non soltanto. L'uomo produce un olio simile, una corteccia, una maschera, un’identità mentale che scherma dagli avvenimenti esterni. Dai sentimenti spontanei, dagli atteggiamenti sgraditi, da ciò che ci turba e che ci porterebbe all'autocritica, da ciò che destabilizzerebbe il mondo ristretto e falsamente tranquillizzante che ognuno si è creato.
L’uomo comune sa di averlo addosso; quasi mai riesce a trovare un solvente giusto per eliminarlo. Il catrame è la diffidenza, è la rispettabilità, forse è il carattere che ogni uomo crede di avere in esclusiva.
Quest’autoanalisi romanzata scalfisce il bitume di una figura professionale che stagna, che legge e rilegge le sue classifiche, le sue graduatorie. Ridotta ad un numero a tre cifre. E' il servitore dello stato che aspetta la pensione.
"Una vita per la scuola" come epitaffio.
Un cavaliere della retorica, delle braccia in seconda, della marcia in cortile, delle figure eroiche del Risorgimento, dell’"in piedi davanti al direttore", della bella e della brutta copia, della "Spigolatrice di Sapri" imparata a memoria o della "Cavallina storna". I "conticini" e i racconti della guerra in Africa, poi insegna a cantare la Bella Gigogin e "Oh mia bela Madunina ti te dominet Milàn oppure "Bella Ciao".
E i colleghi con i vestiti grigi e neri principe di Galles, il baschetto in testa, qualche papillon al posto delle tristi cravatte e poi i registri e i sacchetti della tombola per interrogare a sorte. Con loro si scambiano qualche trita battuta maschilista, la depressione galoppante oppure due figli di artigiano contro uno di industriale da inserire nelle proprie classi.
La direzione didattica con la foto di Gronchi alla parete e l'autorità del luogo comune in latino. Paternalismo del rimprovero spudorato e il cattivo gusto di dimostrarsi, sempre, superiore. L'unico sforzo è compiuto per smorzare ogni polemica, per addormentare lo spirito, per appiattire qualsiasi picco di anticonformismo.
Ma l'uomo sembra contento di rimanere tra i pochi eroi pronti a mantenere questi valori fini a se stessi, di retroguardia, che sputano sul progresso e sulla società che si vuole mantenere inalterata.
Infatti, si guarda attorno e scopre che la "Fabbrichètta" ha sostituito la Scuola. La sintassi e la buona lingua italiana sono sbeffeggiate da un tronfio sgrammaticato industrialotto che guadagna in un anno ciò che lui prenderà in una vita. Pensare di essere tra i notabili del paese e ritrovarsi fra tanti benestanti. Che affronto.
Anche gli operai, illusi, a rompersi le ossa per dieci ore in fabbrica con la speranza, un giorno, di scalare posizioni e diventare padroncini. Sempre ignoranti e grezzi rimarrete. La filosofia del “con più che produci con più che guadagni”[1] viene seguita ad ogni livello.
Magari ha pure l'ipocrisia di affermare che il lavoro nobilita e che ogni mestiere ha la propria dignità; poi si sorprende a pensare sdegnato al lavoratore che, nell'inchiodare una suola mentre fischietta "Volare", riesce a ottenere più soldi di lui.
E la donna lo insidia, lo vuole scalzare dal ponte di comando, è l'ammutinamento del subalterno, la rivolta della schiava. Decide lei se e quando concedersi, non più il contrario. Impudenza e indipendenza senza giustificazione.
E schiuma di rabbia davanti al salario di sua moglie che si è fatta inghiottire dal mostro-calzaturificio con gli occhi di cuoio e la bocca che spara chiodi.
I pantaloni non li porta più da solo, una donna glieli contende ed ha più grinta. Lei tenta di mordere il mondo ma al massimo è il mondo del consumismo che si fa addentare.
Un morso e c'è la tv, un'altro ed ecco il frigo quindi la lavatrice e la 600 multipla; e ad agosto sulla riviera romagnola in una pensione a gestione familiare.
Il figlio serve per scaricare la propria frustrazione e trasferire vecchie speranze andate deluse. Dovrà comandare, esercitare il potere, avere una bella posizione che nessuno potrà insidiare.
Lui, il figlio, deve diventare "cumènda" , cavaliere del lavoro, grand'ufficiale o cosa altro.
Il resto è una vita intesa come sofferenza piatta e sconclusionata, vita che si esalta nell'inutilità del dovere per il dovere, per la famiglia, per la carriera, per gli scatti. Anche una partita di carte o di pallone si risolve in abitudine o in episodi di dissenso tacito verso alcuni comportamenti umani.
Allora la scelta di lasciare una certezza di depressione senza esserne convinto, per seguire la corrente dei miracolati che troppo in fretta hanno risolto le proprie esistenze, o almeno così fanno capire, genera disagio e preoccupazione, maldestri e infantili atteggiamenti.
Ultimo passo: essere o fingersi pazzo sembra una soluzione per affrontare una comunità disprezzabile. Dissociarsi con beffarda ironia, invece che con il cinismo di chi aspetta la tragedia da lui stesso provocata, poteva dimostrarsi la prospettiva migliore.
Anche il gusto, col quale si sarebbero potuti deridere gli insegnanti rispettosi sia della religione più ottusa quanto dei programmi ministeriali più pigri, sarebbe stato più acre.
Che piacere urlare in faccia ad ognuno di averlo riconosciuto, smascherato nella sua meschinità di quarta serie.
E mentre la disgrazia incombe, resa irreparabile dalla mediocrità di tutti, il maestro, mantiene una rispettabilità di facciata, che lo lascia in finta armonia con la società circostante, seppure ridotto ad una macchietta avvilente.
Alla fine si convince di lasciare alla fantasia del sogno ogni possibilità di ingannare e schernire il mondo, di inventarsi nuove vite e avventure e tutto quanto lo aiuti a dimenticare gli incubi del disadattamento.
[1] - Intercalare popolare lombardo