Javier Cercas

Javier Cercas L`impostore


Guanda, 2015 Narrativa Straniera | Romanzo | fiction

09/12/2015 di Corrado Ori Tanzi
Nato in manicomio da madre pazza. Barò anche sulla data di nascita. Costruì la finzione e la plasmò con grumi di realtà. Andò avanti per trent’anni. A un certo punto divenne famoso quanto una rockstar. Poi cadde. E si fece molto male. E oggi, a quasi 100 anni, non si capacita ancora di come il mondo che ha scoperto le sue menzogne non le abbia almeno in parte apprezzate, riconoscendogli di aver fatto del bene alla società.

Indubbiamente bisogna essere un genio per fare della propria vita quella che ne ha fatto Enric Marco. Che si è fatto passare per clandestino antinazista, fuggito in Francia, arrestato a Marsiglia dalla polizia di Pétain, deportato in Germania e confinato al campo di concentramento di Flössenburg. Per poi diventare presidente dell’associazione spagnola dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, tenendo centinaia di appassionate conferenze, un toccante discorso alla Camera dei Deputati spagnola e ottenendo onorificenze e decorazioni. Invece in tempo di guerra era andato volontariamente in Germania in ossequio a un accordo tra Franco e Hitler con cui la Spagna falangista “pagava” l’aiuto tedesco nella Guerra Civile e qui arrestato per motivi privati ma subito assolto, tornato in Spagna e negli anni Settanta segretario della CNT, il sindacato anarchico. Mai messo piede in un campo di concentramento.

L’impostore di Javier Cercas raccoglie la parabola di quest’uomo, a modo suo ammirevole e coraggioso. Nel 2005, per soli tre mesi Marco non riuscì a tenere il discorso di celebrazione dei 60 anni della liberazione di Mauthausen davanti all’allora capo del governo spagnolo José Luis Zapatero, perché un ostinato e borderline storico, Benito Bermejo, riuscì a far venire alla luce la pluridecennale menzogna. Con la stessa sensibilità che contraddistinse un suo bellissimo titolo (Anatomia di un istante) di natura storiografica, Cercas si chiede (e si risponde) come è stato possibile che questo anziano signore abbia tenuto in scacco l’intera società spagnola (e non solo quella) con una balla del genere.

Coinvolgente sotto tutti i punti di vista la ricerca della verità dello scrittore e professore universitario spagnolo. Il punto di partenza è che bisogna essere un genio per arrivare a tanto, pensarlo e farlo. E questo, lo abbiamo detto, è stata materia prima a disposizione del suo ideatore. Che ha avuto l’intelligenza di capire che la menzogna sta in piedi se impastata con strati più o meno profondi di verità, quelli che possono essere facilmente provati e condurre a pensare che, veri loro, è vera tutta l’impalcatura. Ha quindi sfruttato la fortuna di incarnare in una sola persona due ruoli pesantissimi, quello della vittima e del testimone, per anni gli unici portatori effettivi della memoria sull’Olocausto, molto più degli storici. Marco ha incominciato abbellendo il suo passato, poi intrecciandolo con delle bugie a cui credeva lui per primo. Dimenticandosi all’istante che fossero bugie. Non ha mai bleffato. Non finse di essere un deportato. Lo diventò. Solo a guerra abbondantemente terminata. Come Alonso Quijano divenne Don Chisciotte senza fingere di esserlo, così Enric Marco Batlle (il nome per esteso) divenne uno dei paladini dei sopravvissuti all’orrore dei campi nazisti senza pensare un secondo di non essere mai stato in realtà un deportato. Non lo fu in guerra, lo fu nel pensiero durante il dopoguerra, che cosa c’era di sbagliato? Il passato diventava semplicemente una delle dimensioni del proprio presente, malleabile secondo le esigenze del momento.

La sua impostura purtroppo (per lui, s’intende) ha dovuto fare i conti con un elevato grado di mediopatia, che lo ha esposto troppo. La fede narcisistica nelle sue bugie lo fece diventare seduttore e manipolatore eccessivamente scaltro, toccato da un senso di infallibilità infinito. Adorava farsi intervistare, parlare, farsi riconoscere per strada, venire bene in fotografia. Parlantina da pubblicitario, personalità che sprizzava fantasia da ogni poro, ha incantato masse di giovani che, carta canta, hanno addirittura abiurato la loro posizione revisionistica se non quando addirittura negazionista e ha dato lustro all’associazione che presiedeva con una serie di iniziative di grande impatto. Per questo un intellettuale come Claudio Magris lo assolse affermando che aveva detto delle verità e il fatto di essersele attribuite non era più pesante (nel male) dell’aver (nel bene) aiutato a divulgare presso la società l’orrore della bestia nazionalsocialista. Ragionamento che corre sul filo del pensiero volterriano: “Una menzogna è un vizio soltanto quando fa il male, è una grande virtù quando fa il bene”.

Sta di fatto che la sua arroganza e la sua mania di protagonismo lo esposero a errori che dapprima crearono tiepidi sospetti e poi una vera e propria investigazione ad personam. Il tonfo che fece fu qualcosa di planetario. I negazionisti stapparono champagne, spumante, moscato, birra e sidro e brindarono per mesi. Enric Marco si chiede tuttora la ragione di questo can can. E, battagliero com’è, non passa giorno (ripeto, ha quasi un secolo di vita il signore) senza lottare per la sua riabilitazione.

Javier Cercas, L’impostore, Guanda, pagg. 420, euro 20

Corrado Ori Tanzi

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