Eros Alesi

Eros Alesi Che Puff


Stampa Alternativa Letteratura Italiana

04/11/2016 di Giuseppe Catani
“Il capellone ventenne che ieri sera ha concluso la carriera di drogato (…). C’è tutto in un piccolo borsino di cuoio afghano che gli hanno trovato addosso (…). Le bande di capelloni, di giramondo, di asociali che si incontrano a piazza di Spagna…”. Così un quotidiano romano commentò, nel lontano 1971, il suicidio di Eros Alesi. Non aveva ancora compiuto vent’anni, la morte aveva cancellato in un attimo un’esistenza breve e alquanto difficile, incrinata dai pessimi rapporti col padre e dal consumo di sostanze stupefacenti. Il giornalista che scrisse quelle fesserie, però, non aveva colto un particolare, anzi, due: quel ragazzo così fragile era un genio o qualcosa di simile. E quel borsino conteneva un capolavoro letterario. Che fu preso in custodia dall’amico Remo Marcone. Era una sorta di lungo poema istintivo e rabbioso, scritto in preda alla disperazione e alla rabbia. Un viaggio, non solo fisico, attraverso le rotte della droga, del randagismo, del misticismo. Tracce di Allen Ginsberg, di Arthur Rimbaud, di scrittura automatica, tracce di una vita intensa, vissuta con la foga di un ragazzo anticonformista e visionario. Che della vita pensava fosse solo un grande puff, perché “tutti gli attimi sono puff, il puff è l’uomo”, e “l’unico ingrediente della torta al cioccolato sono io”.

Che Puff ebbe un percorso difficile. Vide per la prima volta la luce nel 1973, quando fu inserito all’interno di “Almanacco dello specchio”, rivista di letteratura allora pubblicata da Mondadori. Stroncato da Pier Paolo Pasolini (“Non ho nessuna particolare pietà per questo disgraziato ragazzo, debole e ignorante, che è morto per la stessa ragione per cui si fanno crescere i capelli”), fece di nuovo capolino sei anni più tardi tra le pagine di “Poesia degli Anni Settanta”, curata da Antonio Porta.

Ora Che Puff ricompare nella collana “Millelire” di Stampa Alternativa e, per la prima volta, viene pubblicata come opera a sé e non all’interno di un'antologia. C’è da dire che la sua forza è rimasta la stessa. I richiami alla droga e all’autodistruzione, le urla liberatorie, l’invito a cogliere (e bruciare) ogni attimo di vita, la realtà che non esiste sono gli elementi di una poetica presa a schiaffi da un ritmo incalzante, percorso da invettive feroci come da improvvisi momenti di tenerezza. “Il treno della pazzia, della tossicomania, dell’allucinazione, dell’alcoolismo effettua 3 fermate obbligatorie (…), che il capolinea è la stazione di concime, cenere, polvere, soggetta a metamorfosi di forme e ordini di vita”. Aveva capito tutto quel capellone drogato, eppure non è mai stato sfiorato dall’idea di fermarsi. Nemmeno per un attimo.