Bob Dylan

Bob Dylan Like a Rolling Stone. Interviste


Il Saggiatore, 2021, Camilla Pieretti (Traduttore), 592 pagine, 25 euro Musica | Biografie

18/02/2022 di Franco Bergoglio
Cos’è un classico? Qualcosa intorno al quale si può sempre fare una scoperta, un campo fertile che ciascuno può coltivare con la speranza di estrarne dei frutti saporiti. Secondo Harold Bloom, Don Chisciotte o le migliori opere di Shakespeare sono in grado di offrire sostegno “a qualunque teoria” si voglia costruire intorno ad esse.

Possiamo tranquillamente applicare questo ragionamento all’opera omnia di Bob Dylan. In sei decenni di carriera, migliaia di concerti e centinaia di brani incisi, milioni di persone si sono riconosciuti nel messaggio di Dylan. Per questo il numero di libri che ha per oggetto Dylan è praticamente infinito, come lo è lo spettro delle speculazioni che riguardano il bardo di Duluth (così lo etichettavano i media qualche anno fa). Sarebbe
facile affermare che su di lui si è sproloquiato troppo, ma, come ci insegna Bloom, Dylan è un classico della musica e della letteratura e dunque si possono avere intuizioni, proporre libere associazioni, si possono scrivere libri intelligenti, si può addirittura uscire con il titolo osato da Patrick Humphries e John Bauldie per Oh No! Not Another Bob Dylan Book (1991). Dylan probabilmente direbbe che è tutto un trucco, che tutta quella carta non significa nulla, come ha spesso fatto nel corso di una vita trascorsa sotto i riflettori. Preceduto dalla fama di odiare le conferenze stampa, di rispondere sgarbatamente o depistare gli intervistatori alzando cortine fumogene, in realtà nel corso di una carriera lunghissima Dylan si è spesso concesso ai giornalisti e quando ha incontrato quelli giusti ne sono uscite pagine dense di pensieri su musica e arte.

Il giornalista Jeff Burger nel 2018 si è incaricato di raccogliere le migliori interviste dagli esordi fino al conferimento del Nobel per la Letteratura. Like a Rolling Stone. Interviste: un tomo di oltre cinquecento pagine pubblicato ora in italiano dal Saggiatore, un monumento di carta e parole alla creatività di un uomo che non si è mai fermato, anche a costo di lasciare indietro il pubblico. Già, agli albori, nelle interviste del 1964 –come si vede bene nel libro- Dylan doveva giustificare i cambiamenti. Un po’ la curiosità era giustificata. Era apparso dal nulla per sconvolgere il mondo del folk newyorkese nel Village: “Con il suo cappello in pelle, i blue jeans e delle clark malconce (diventati quasi una divisa per lui in quel periodo), Dylan pareva un Huckleberry Finn moderno e denutrito. Come Huck, viene dal Midwest: lui avrebbe detto che ne è «scappato»”. E, prosegue il celebre critico jazz Nat Hentoff, autore di queste righe: “Agli occhi dei giovani statunitensi, l’immagine di Dylan cominciava a prendere forma: un James Dean in versione canora con armonie alla Holden Caulfeld” (p.94-95).

Da lì partì una schermaglia durata tutti gli anni Sessanta: Dylan che rinnega il folk, Dylan che si elettrifica vendendosi al rock, Dylan che volta le spalle alle lotte dei neri e a quelle studentesche. Dylan che odia il
popolo di Woodstock e gli hippy. Certamente Dylan rifiuta gli schematismi, rifuggendo le domande che cercano di interpretare la propria opera. Più volte spiega che le sue canzoni non vanno capite ma ascoltate. Dylan non è neanche generoso con i colleghi musicisti. Parla con sincero trasporto solamente dei bei tempi andati e di musicisti defunti, del blues degli anni Venti e Trenta (Robert Johnson, Leadbelly, Blind Willie
Johnson, Charlie Patton) o del pop song anni Quaranta/Cinquanta (Bing Crosby, Sinatra, Peggy Lee, Rosemary Clooney). Negli ultimi anni ci si è stupiti di alcune scelte di repertorio bizzarre o del disco da crooner dedicato a Sinatra, ma leggendo le interviste nel corso dei decenni si vede Dylan citarlo spesso e aggiungere Cab Calloway o il vituperato “re del jazz” morbido anni Venti, Paul Whiteman.

Il rapporto con i giornali cambia a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Il nuovo Dylan è più pacato e disposto a comprendere il disorientamento che la sua musica provoca spesso nel suo pubblico (e nei giornalisti). “Ho sentito dire che Stravinskij ha ricevuto critiche negative, Coltrane ne ha ricevute
 tantissime. Charlie Parker è stato parecchio criticato. La gente ha sempre delle reazioni emotive eccessive
quando pensa che un’artista non faccia più quello che faceva prima”.( P. 424). È significativo che
Dylan guardi lontano dal rock in cerca di esempi nobili.

Il culmine del libro arriva nelle pagine finali, quando Dylan viene finalmente intervistato da personalità forti con domande all’altezza della situazione. Le chiacchierate diventano allora veri e propri saggi sulla musica, sull’America, sull’arte. Durante una di queste interviste, il romanziere e critico musicale Jonathan Lethem è colpito dalla voce che genera un:“Effetto caleidoscopico del tempo: qui il guaito del cucciolo del folk o il sarcastico rimshot dell’idolo hipster perseguitato, lì i toni seduttivi del sex symbol anni Settanta, e poi di nuovo (e sempre) il parlato gutturale dell’anziano statista, quella voce da cantante blues d’altri tempi che da giovaneaspirante ha invocato in modo tanto leggendario, agli esordi della sua carriera, per poi invecchiarci
 dentro, a poco a poco” (p.470).

Dylan è portatore sano di una mitologia debordante, che cerca di vivere nel presente e recupera il proprio passato partendo dagli anni dell’infanzia, dallo swing anni Quaranta e dal blues degli anni Venti, dal country al canzoniere americano anteguerra, al primo rock’n’roll. Per Lethem:“Sembra quasi che
Dylan abbia l’impressione di abitare un corpo infestato –come una casa- dai fantasmi dei bardi, dei suoi
precursori in campo musicale” (p.482).

Una seconda eccellente intervista riportata è quella condotta nel 2009 dal professore di storia e saggista Douglas Brinkley per Rolling Stone. Titolo: L’individualismo americano, vecchio stile e di fine secolo di Bob Dylan. Ecco il ritratto:“Come l’uomo dall’aria severa del celebre dipinto American Gothic di Gran Wood, Dylan sembra avere il canzoniere americano in una mano e un forcone nell’altra, puntato contro critici del rock, politici, banchieri di Wall Street, ladruncoli da quattro soldi, il World Wide Web…contro tutto ciò che impoverisce lo spirito degli individui” (p. 491).
Parlando del disco Together Through Life (2009) e in particolare del brano My Wife’s Home
Town che richiama la “tormentosa atmosfera alla Tom Waits di Mule Variations”, lo storico scrive che Dylan suona: “come un flemmatico Cab Calloway, che vocalizza e tossisce prima che la bara si chiuda” (p.493). Lo scrittore propone un parallelo con il lavoro continuo di revisione fatto da Walt Whitman alla sua opera tanto che l’ultima versione della raccolta, elaborata da anziano, è stata definita Deathbed Edition. Se Whitman ha continuato per decenni e fin sul letto di morte a rielaborare Foglie d’erba, Bibbia laica dell’America in
crescita, l’opera di Dylan rappresenta da anni l’autobiografia completa dell’America, ora ribelle, ora integrata, ora disillusa. “Non credo che il sogno di Whitman si sia mai compiuto. Non so se il suo spirito sia ancora qui, da qualche parte. E’ difficile dire se regga ancora, se non in senso puramente nostalgico. Quell’impeto di espansione verso ovest si è spento da un po’ ormai”.

La scomparsa dell’America whitmaniana accomuna Dylan e a un intero filone di scrittori. Henry Miller in Tropico del Cancro lo poneva al centro del canone letterario americano: “Tutto quel che c'è di valido in America, l'ha espresso Whitman (…) il futuro appartiene alla macchina”, o quando lo riteneva l’ultimo poeta “quasi indecifrabile, un monumento coperto di rozzi geroglifici, per i quali non c'è chiave”.


Sbagliava Miller: quel canto dell’America non era morto, stava solo per cambiare supporto, dal libro al vinile. In quel filone si sono espressi grandi poeti, come Allen Ginsberg (buon amico di Dylan, peraltro), ma il mondo è cambiato: la poesia cede il passo al rock nei cuori giovanili. Anche su questo punto Dylan si è sempre schermito: “sono canzoni. Non sono incise nella pietra. Solo su plastica” (p. 398). Eppure la conclusione anche per l’esimio professor Douglas Brinkley è quella:“Se c’è un americano in grado di impersonare quella che Whitman chiamava la vita sulla «strada aperta» quello è Bob Dylan”. P.502.

Quando nel 2016 gli è stato assegnato il Nobel, molte voci si sono levate a favore o contro la decisione, ma Dylan è rimasto fuori dalla mischia. Ha accumulato materiali e li ha scaricati nel disco Rough and Rowdy Ways (2020), preceduto dalla dilatata ballad Murder Most Foul, diffusa sui social nei mesi più duri della pandemia. Il lungo racconto in musica parte dal giorno del 1963 in cui perse la vita Kennedy e dipinge a lente pennellate l’affresco di un’America estinta. Anche un secondo brano dal disco, I Contain Multitudes è stato buttato nel mare-web come un messaggio in bottiglia. Contengo moltitudini: un verso-aforisma tratto da Song of Myself di Whitman. Dylan torna instancabile a evocare Whitman e l’America. Da decenni, ogni volta che Dylan esce con un capolavoro – quando sembra che tutto sia già stato detto, dopo dischi inutili o lunghi silenzi- ci si chiede come faccia. E non vediamo il fantasma elettrico di Whitman sussurrargli all’orecchio: “Che il potente spettacolo continui … tu puoi contribuire con un verso”.


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