Bob Dylan

Bob Dylan Chronicles vol. 1


Feltrinelli 2005 Biografie | Musica

di Luca Meneghel
Una recensione del primo volume dell’autobiografia di Dylan non può susisstere senza prima sottolineare la portata rivoluzionaria di questo progetto, rivoluzionaria non certo per quanto riguarda la storia del genere autobiografico quanto per la storia di colui che ha deciso di sedersi ad un tavolo raccontando la propria vita: Dylan è un personaggio schivo, riservato, un centellinatore di interviste, Dylan è semplicemente l’ultima persona dalla quale avremmo potuto aspettarci un’autobiografia. Non è facile andare a rintracciare le motivazioni che lo hanno spinto a sobbarcarsi questa fatica, dobbiamo accontentarci della versione ufficiale: stanco di sentire per anni mucchi di fandonie sul proprio conto, Bob ha voluto dire la sua per zittire una volta per tutte giornalisti e biografi non ufficiali.
Va da sé che da un personaggio così fuori dagli schemi non potevamo attenderci una biografia di impianto classico: “Chronicles” è stata giustamente definita, nella presentazione ufficiale alla Feltrinelli di Milano, un “personal essay”, un genere letterario molto in voga negli Stati Uniti che non ha biunivoci significanti e significati in Italia e in Europa e può solo essere tradotto come “saggio autobiografico”, in altre parole un’autobiografia libera di spaziare nel tempo e nella geografia senza curarsi della reale linea diacronica e diatopica degli avvenimenti. Curioso poi è come il nostro eroe l’abbia scritta: sembra di vederlo, svogliato (ha dichiarato a Newsweek di non essere portato per starsene seduto a scrivere un libro, impresa ardua per chi come lui è abituato a scrivere canzoni nei momenti e nelle circostanze più impensate) di fronte ad una vecchia macchina da scrivere (Dylan e il computer sembrano davvero due entità inconciliabili) mentre cerca di dare forma letteraria alle immagini che gli scorrono nella testa, immagini veloci e vivide che possono essere afferrate soltanto scrivendo tutto in maiuscolo, per risparmiare tempo, salvo poi passare il manoscritto ad un copista che ha sistemato le carte dell’autore.
Un saggio autobiografico dunque, anche se più precisamente dovremmo parlare di cinque saggi autobiografici, cinque flashback intensissimi nel suo passato: si comincia con lo sbarco in una romanzata New York sempre fredda e nevosa, una città da fiaba moderna con fumosi club saldamente impiantati nel Greenwich Village, passando poi per Woodstock, dove risiede nel momento culminante del suo successo e della sua carriera mentre tutto il mondo giovanile lo eleva al rango di profeta e portavoce di una generazione, una posizione saldamente rifiutata dal diretto interessato che si definisce un semplice autore di canzoni, per poi saltare avanti fino agli anni ottanta in una New Orleans apparentemente “luogo ideale per fare un disco”, descritta con la maestria dei grandi scrittori, tornando infine alla Duluth delle origini, anni luce lontana dalla vita e dall’atmosfera della grande mela.
Dovremmo inoltre pensare alle “Chronicles” come ad una rassegna di personaggi immensi che Dylan conosce direttamente o indirettamente, da Van Ronk a Joan Baez a Robert Johnson, per non parlare dell’inchiostro dedicato all’idolo assoluto del giovane folksinger, Woody Guthrie, che nelle pagine di questo libro è tratteggiato con un affetto davvero commovente, proprio di un’agiografia profana ricca di spunti interessanti e curiosi. Chi spera di soddisfare la propria curiosità in merito a frivolezze che da lungo tempo sono circondate da un alone leggendario (è stato Dylan a far fumare il primo spinello a John Lennon?, giusto per citarne una) rimarrà deluso, o forse dovrà aspettare i prossimi volumi, perché l’idea che Bob ci dà in questa prima occasione è quella di voler pagare il proprio debito con il passato creando una fantastica galleria di individui che lascia poco spazio alla propria vita privata favorendo coloro che lo hanno ispirato, aiutato, formato culturalmente e musicalmente. Difficoltosa è stata la resa italiana del testo dylaniano, condotta sapientemente da Alessandro Carrera, che si è trovato di fronte ad una prosa fortemente paratattica costituita da immagini incredibilmente vive e condensate in poche parole, una scrittura geniale che accosta lo scrittore alla pittura espressionistica per i pochi tratti con i quali riesce ad esprimere concetti e figure in una maniera, permettetemi, propria dei geni. Non ci è dato sapere, ma forse non lo sa neppure il nostro Dylan, se vi saranno i già attesissimi due volumi mancanti, ma quello che abbiamo tra le mani è sufficiente per tuffarci nel passato e scoprire personaggi che sembrano usciti dai romanzi di Kerouac e scenari stupendi, solo sognati ed in queste pagine così incredibilmente vicini: la verità è che Dylan non è solo un cantante, è anche un sapiente e grande scrittore capace di dare una forma letteraria ai propri ricordi infarcendoli di sogni e di tratti propri della scrittura dei veri romanzieri. Speriamo davvero che questo saggio – autobiografia – romanzo, già citato dal New York Times come uno dei migliori libri del 2004, in lizza per uno dei maggiori concorsi letterari americani, possa spingere Dylan lungo quella strada che porta al premio Nobel per la letteratura, da troppi anni mancato per un soffio senza spiegazione, perché quello che abbiamo davanti prima che un grande scrittore è un’icona del novecento da prendere e consegnare alla storia musicale, sociale e letteraria.


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