Alicia Yánez Cossío

Alicia Yánez Cossío La città addormentata


Giunti-Zanzibar, pp. 269, lire 24.000

di Danilo Manera
Quito è una delle più belle capitali del mondo per i tesori artistici che racchiude, ma è anche tra le più isolate, altissima in mezzo a impervi picchi andini, e per l'assenza delle stagioni il tempo pare non scorrervi. La cultura spagnola e quella indigena vi si sono giustapposte arroccandosi nella diffidenza delle rispettive tradizioni, pietrificate in un'attitudine di angoscia immobile, come i cuori sanguinanti e trafitti da spine scolpiti sulle sue splendide chiese. Non sorprende che Bruna, la protagonista del romanzo La città addormentata, consideri Quito una pozza stagnante e l'identifichi col "soroche", il mal di montagna che schiaccia, soffoca e intorpidisce.
Alle soglie della giovinezza, Bruna vuol fuggire lontano dai dogmi e pregiudizi di quel mondo statico e anacronistico. Ma prima deve fare i conti con il proprio passato famigliare, pieno di strampalate figure la cui vitalità è sempre deviata dalla sonnolenza e dalle tare dell'ambiente. Capostipite è una principessa india sposa di un conquistador, che si rifiuta di parlare, uccide a forbiciate il marito che le ha sottratto i figli e s'impicca ai propri capelli. Gli eredi cambiano il cognome e assumono modi da aristocrazia creola. Ma sui rami del ritoccato albero genealogico fanno il nido altre creature matte, dal vescovo Salomone che genera 245 figli tra le sue fedeli per combattere la massoneria alla cerea musa decadente Camelia Lacrimosa, dallo zio Francisco che ammucchia per tutta la vita e anche da fantasma scatolette di fiammiferi vuote (finché Bruna non le incendia) alla zia Catalina-cacca-di-gallina, iperbolica bacchettona tutta presa a inanellare giaculatorie, fioretti, penitenze e devozioni per liberare le anime del purgatorio, con tanto di ragioniere per quell'immane contabilità.
Dobbiamo al traduttore Roberto Bugliani questo rarissimo arrivo dalla letteratura ecuadoriana, esordio nel 1972 di Alicia Yánez Cossío (1928), che ha poi proseguito la sua indagine al femminile: se Bruna rompe per via euforica con la rete di viltà e proibizioni di Quito, in Io vendo degli occhi neri (1979) la protagonista che divorzia e per mantenersi smercia cosmetici ha una visione ben più problematica. Ma l'autrice non perde mai la sua prodigiosa inventiva, che coinvolge anche i lettori ormai avvezzi alle policrome chimere del "reale meraviglioso" latinoamericano, qui in uno dei suoi momenti migliori.

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