Maura Delpero Vermiglio
2024 » RECENSIONE | Drammatico | Commedia
Con Giuseppe De Domenico, Martina Scrinzi, Tommaso Ragno, Carlotta Gamba, Roberta Rovelli, Orietta Notari, Patrick Gardener
01/10/2024 di Autori vari
Roberto Codini:
La famiglia in tempo di guerra: microcosmi universali
Il bel film di Maura Delpero, che prende il titolo dal nome del paese della provincia di Bolzano nel quale è ambientato, parte dalla stessa posizione di Campo di battaglia di Gianni Amelio (ambientato in un ospedale durante la Seconda guerra mondiale), ma la racconta attraverso un nucleo ristretto di persone, una famiglia, descrivendone e raccontandone le dinamiche e la complessità dei rapporti.La regista, pur partendo dalla distinzione tra chi è favorevole alla guerra e chi è contrario (proprio come nel film di Amelio), si concentra sui meccanismi che regolano i rapporti tra la gente del paese e all'interno di una delle sue famiglie, per mostrare quanto l’insieme delle abitudini e delle tradizioni sociali e religiose finisca per avere il sopravvento sui comportamenti umani, sulla loro condotta.
Da una parte quindi c’è la scuola, che il maestro, interpretato da Tommaso Ragno, porta avanti come una vera e propria missione; dall’altra c’è la famiglia, con le sue credenze e le sue tradizioni, con gli esiti che si vedranno, quando si tratta di distribuire eguali diritti tra uomini e donne, come ben raccontato nel film di Cortellesi.
Adottando un linguaggio poetico e una narrazione forse troppo generosamente paragonata a quella di Ermanno Olmi, la regista riesce a descrivere, ribaltandole, le gerarchie tra maschile e femminile, mostrando la guerra per quello che è, ovvero la continuazione, sul piano della violenza e dello scontro, di un ego maschile impegnato nel tentativo di affermare la propria potenza, proprio come nel film di Cortellesi.
Ancora una volta, una regista è capace di raccontarci la dinamica dei meccanismi psicologici e sociali che si esprimono in primo luogo in famiglia, e le doverose riflessioni sulla guerra diventano lo spunto per raccontare le evoluzioni di quei microcosmi come la famiglia, che sono in realtà universali.
Il film non riesce del tutto, però, a rappresentare la complessità dei rapporti, e la Sicilia, così lontana e così vicina, viene descritta in modo forse un po' superficiale: “Vogliono tornare dalle sottane della mamma questi qua del Sud”, dice un personaggio, a proposito di un disertore siciliano che ha aiutato a fuggire anche un ragazzo del luogo. Se in Campo di battaglia la guerra viene tenuta fuori dal campo, appunto, in questo film rimane davvero in superficie, tanto che si prega così: “Nutri la nostra famiglia, i fratelli in guerra. Aiuta i più deboli, e aiutaci a condividere con loro ciò che possediamo”.
Viene in mente “Il deserto dei Tartari” di buzzatiana memoria, ma il risultato non è e non può essere lo stesso. Vermiglio è ben diretto e ben girato, ma resta un film incompleto, un notevole esercizio di stile, ma mancante di qualcosa. In fondo è la natura umana, troppo umana.
Laura Bianchi:
Prendete L'albero degli zoccoli, e dimenticatelo. In Vermiglio non c'è oleografia, non c'è nostalgia, né rimpianto per i bei tempi andati dei bisnonni, quando si dormiva tutti in un letto e ci si scaldava insieme in un solo locale, quando si facevano chilometri a piedi nella neve per andare a scuola, e lì si imparava l'italiano, anche se si pensava in dialetto. No: Delpero sembra illudere il pubblico, all'inizio, presentando una vermeeriana sequenza di mungitura, in un chiaroscuro da quadretto idilliaco, ma è altrettanto recisa nel distruggere l'illusione, dipingendo poi un microcosmo patriarcale, durissimo, bigotto e intriso di superstizioni e timore di un Dio lontano, che si prega costantemente a fior di labbra, in nome del quale si inventano penitenze in espiazione di peccati inesistenti - come la masturbazione -, e di cui poi ci si dimentica, praticando il pettegolezzo, nascondendo i propri vizi, accogliendo dentro di sé pregiudizi striscianti, primo tra tutti quello maschilista.
E c'è di più: le figure femminili, ritratte tutte con profondità e delicatezza, rivelano una sottomissione solo apparente nei confronti del capofamiglia, al punto che l'occhio dello spettatore, grazie a loro, lo spia nei suoi cedimenti (preferisce a volte comprare dischi di Chopin piuttosto che cibo per i sette figli, e nasconde sotto chiave un album di fotografie di donne nude), ed è portato a farsi di lui un'idea sostanzialmente opposta a quella che il "signor maestro" del paese vuole dare a tutti.
Ma non basta ancora: la guerra, che, è vero, resta al di fuori del paesino, è comunque presa in considerazione dal pensiero delle donne, che, come scopriamo dalle loro conversazioni (quanto parlano le donne, tra loro!), la giudicano insulsa, dannosa. "La guerra ha fatto diventare stupidi tutti gli uomini!", esclama la zia, con una battuta solo apparentemente semplice, ma in realtà definitiva e potente, attuale, quindi eterna.
Aggiungiamo anche che quello che pare un contrasto tra Nord e Sud, invece, si rivela appunto un'altra trappola argomentativa, poiché i due disertori sono uno del Sud e uno del Nord, entrambi portatori di stress post traumatico, ed entrambi segnati per sempre dalla violenza della guerra, che viene così denunciata con grande forza e senza retorica. A questa si accosta anche la violenza del maschilismo, che vuole gli uomini dotati di parola pubblica, pronti a reprimere il dialogo con figli e mogli, a imporre loro la propria visione del mondo e dello stesso loro futuro, e a tacitare le donne. Le quali cercano, come possono, di trovare un respiro là dove riescono: nella scoperta del piacere fisico, nella cura dei figli, nelle scelte anche difficili che, a un certo punto della loro vita, devono prendere. Emblematica, in questo caso, è la vita parallela delle due sorelle, Lucia, sedotta e abbandonata, che recupera il proprio equilibrio emancipandosi anche dall'obbligo maternale, e Ada, che reprime le proprie pulsioni lesbiche, e confida di voler fare il prete "così quando parlo mi ascolterebbero tutti".
Ecco; ogni paragone con il pur bel film di Olmi è fuori luogo. Ora, non ci resta che sperare in un Oscar, che premierebbe una regista considerata giovane alla soglia dei cinquant'anni; segno che, anche se siamo andate lontane dal microcosmo di Vermiglio, dobbiamo fare ancora tanta strada.