Bisogna proprio dirlo, questo film applaudito a Cannes (Quizaine des realisateurs), affascina già dalla copertina, quando si vede la carcassa di un toro, pancia all’insù, con dietro di lui due figure umane, un nano ed un ragazzo molto alto, entrambi in camice; il tutto condito da una luce che non si capisce bene da dove venga. Un quadro, niente meno che un’immagine degna di un’opera pittorica. Non ci stupisce apprendere che il giovane regista Matteo Garrone (1968) è anche pittore. Oltre al fascino dell’immagine ci attrae anche l’argomento, com’è possibile fare un film su un mestiere così particolare? In effetti, lo ammettiamo, per i primi minuti di film il lavoro dell’imbalsamatore ci affascina, anche perché permette all’astuto regista di trovare delle soluzioni visive assolutamente inedite. Così fin da subito il film ci prende gli occhi e se li tiene fissi sulle proprie immagini, seducendoli con continui cambi di scene, rendendo il film dinamico in una maniera insolitamente lenta. Il corteggiamento dello spettatore da parte dell’abile Garrone continua anche per tutto il resto del film, anche quando l’argomento del titolo viene completamente abbandonato: al posto degli animali l’attenzione si posa sull’ambientazione delle scene; infatti, il film è stato girato nel quartiere Coppola nel casertano, fatiscente complesso di palazzi prossimi alla demolizione. In questo scenario deprimente c’è la trovata visiva migliore della pellicola: al cemento quasi dismesso viene sempre, o quasi, associato il paesaggio, la natura; così si possono vedere prati verdissimi in primo piano con i casermoni in secondo, e in questa maniera ci vengono mostrati anche le spiagge invernali, i cieli bellissimi e, addirittura, un campo da golf! Si creano così dei contrasti assolutamente inediti, affascinanti, associando delle cose completamente differenti, contrapponendo il brutto al bello, dicotomia ripresa (non di certo casualmente) nella storia vera e propria raccontata…si, perché c’è anche la storia, cha tiene il passo all’assoluto valore estetico del film: dopo i primi minuti d’assestamento visivo veniamo sempre più coinvolti nel succedersi degli eventi, nelle vite dell’imbalsamatore nano Peppino interpretato dall’ex-caratterista Ernesto Mahieux, del bel Valerio, giovane apprendista che ben presto diviene l’oggetto delle attenzioni del suo datore di lavoro, e della provocante Debora, che crea scompiglio nella vita degli altri due. La storia poi si sviluppa e il Peppino “buono come il pane” (così lo definisce Valerio) esterna la sua figura piena d’inquietudine nell’amore folle verso il suo assistente, oramai invaghito di Debora. Al tutto vanno aggiunti anche altri particolari, quali la collusione con la camorra, le avventure sessuali dei protagonisti e la “fuga” al nord. Il film tecnicamente si può definire un noir che prende sempre più una piega verso il basso, verso il tragico finale. Gli attori sono tutti meritevoli di una menzione, a partire da Mahieux che riesce a trasmetterci una serie di sensazioni che vanno dalla simpatia all’odio, forse entra troppo nella parte che, comunque, sembra scritta su misura per lui; Valerio Foglia Manzillo ci regala un’ottima recitazione riuscendo a tralasciare dei limiti espressivi caratterizzanti il suo aspetto. Infine l’attrice che interpreta Debora, Elisabetta Rocchetti, prende piano piano il sopravvento e, riuscendo ad immedesimarsi completamente nella parte, attira su di sé lo spettatore, che alla fine parteggerà solo per lei, lasciando gli altri due interpreti maschili senza tifo.
Un’opera che fa ben sperare, da vedere anche alla faccia di quella critica-snob che tende ultimamente a criticare i film che ottengono dei consensi positivi a Cannes e a Venezia; hanno scritto che Garrone “viene rimandato”, noi lo promuoviamo a pieni voti, cosa che sta facendo anche il pubblico che, fino a prova contraria, è colui che paga il biglietto!