Jonathan Demme Stop Making Sense. 40th Anniversary Experience
1984 / 2024 » RECENSIONE | Documentario | Musica
Con Talking Heads
13/11/2024 di Laura Bianchi
Perché io c'ero nel 1980, quando alcuni miei compagni di università tornarono da Roma folgorati sulla via del PalaEur dopo IL Concerto dei Talking Heads.
E quando li ascoltai, introdotti dal mio fratello maggiore Carlo Massarini, e vidi David Byrne per la prima volta in TV, ciuffo ribelle, voce stentorea, movenze fuori dagli schemi. E un impatto musicale semplicemente sconvolgente, tra echi afro e ritmiche ossessive della batteria di ,Chris Frantz, cover di Al Green, e il basso di Tina Weymouth a colorare di sessualità il tutto, come se l'impatto emotivo non fosse già sovraccarico.
E c'ero anche nel 1984, al cinema, incantata davanti a Stop Making Sense, il gioiello di film di Jonathan Demme, che era riuscito ad accciuffare l'inafferrabile: il dinamismo, la follia, la complicità e l'energia esplosiva dei Talking Heads, riprendendo e montando le esibizioni del gruppo all'apice della creatività, nel corso di tre notti al Pantages Theatre di Los Angeles.
Ma c'ero anche nel 2024, in un Alcatraz trasformato in cinema, a rivedere la sua versione rimasterizzata con una proiezione in 4K e audio Dolby Atmos 7.1., ma soprattutto ad ascoltare Jerry Harrison, tastierista e chitarrista della band, a raccontarne la genesi e lo sviluppo tecnico del progetto.
E a farmi travolgere, e ballare, di nuovo. Un flusso emozionale, dirompente; dai primi fotogrammi, con Byrne che appoggia a terra, sul palco, il suo stereo portatile, l'enorme beatbox uguale a quello che avevamo noi, che vedevamo per le strade di Londra, tra i ragazzi che condividevano così la musica: audiocassette e volume alle stelle. Poi imbraccia la chitarra, e inizia una versione nuda ed elettrizzante di Psycho Killer. E lentamente, pezzo dopo pezzo, arrivano le altre teste parlanti, a comporre uno dei mosaici musicali più cubisti e polimorfi mai sentiti, tra funky, gospel, rock, country, elettronica, balletti, corse sul palco, sguardi divertiti e ispirati, inserti dei magnetici Tom Tom Club.
Demme è stato geniale nel voler dare spazio quasi esclusivamente a loro, e alla musica, con pochissime inquadrature sul pubblico; e quelle poche, che colpo al cuore, nel vederci riflessi, noi quarant'anni fa, con le stesse giacche, le stesse maglie, le stesse pettinature. Per sottolineare l'importanza del loro suono, delle parole che cantavano, di quel mix tra ironia e disincanto, fisicità e intellettualismo, Africa e Occidente, che ha fatto della loro esperienza un unicum molto imitato, ma irripetibile.
Chissà perché, quarant'anni fa, ci sembrava ovvio che un film musicale fosse così: centrato su chi fa la musica, senza pubblico osannante, senza primi piani su ragazze in delirio o giovanotti urlanti, senza esibizionismi. Chissà perché, quel film sembra innovativo ancora oggi, pochi oggetti di scena, cambi di abito funzionali al messaggio (il Big Suit di Byrne!), nessun backstage mitizzante, né interviste epiche.
Nel film, trionfano la debordante genialità dei quattro, l'energia scintillante dei musicisti sul palco con loro (il tastierista Bernie Worrell, le vocalist Lynn Mabry ed Ednah Holt, il chitarrista Alex Weir e il percussionista Steve Scales), i balletti aerobici e l'andatura dinoccolata del leader, la danza con la lampada, i primi piani sui loro volti complici. Una gigantesca ed eccentrica epopea sul fare musica e arte insieme, lasciando tracce ovunque, come frammenti di senso che restano sospesi per quarant'anni, e per tanti altri anni ancora, in attesa di essere ricomposti in un senso impossibile da trovare.
Del resto, è il titolo a dircelo. Stop Making Sense...