Avvertenza: recensione da leggere possibilmente dopo avere visto il film. Annotazione doverosa, visto che i film, ma questo in modo particolare, andrebbero visti possibilmente senza avere notizie particolareggiate sulla trama. E in queste righe di riferimenti diretti ce ne saranno molti, a partire dalla storia vera e propria, e cioè dal massacro al college di Columbine di quattro anni or sono, mai rimosso dalle teste degli americani, e più volte girato e rigirato come esempio della pazzia umana e del commercio libero delle armi da fuoco. L’ultimo a parlare di ciò, in una maniera più che esplicita, è stato Michael Moore con il suo Bowling for Columbine. Gus Van Sant, per conto suo, adotta uno stile distaccato, secondo lui il terribile evento va semplicemente “guardato”, quasi spiato, con uno spirito voyeristico. Così ci si ritrova nelle singole storie dei ragazzi del liceo, li si segue con dei lunghissimi piani sequenza degni del migliore De Palma, si passa con loro dalla doccia alla sala di sviluppo delle fotografie, dall’abitacolo di un’automobile ai bagni della scuola, alla sala mensa e così via, ovunque, sempre spiando. E cosa succede? sembra che non succeda niente, le storie sono delle non-storie: il regista sembra voglia farci capire che seguendo per pochi minuti una persona poco e niente si riesce a capire di essa, al limite si intuisce qualcosa, ma in questo caso lo spettatore rimane disorientato. Sono tutte sequenze che preludono a quella vera che il pubblico aspetta, e nel fare ciò scruta ogni singola immagine per vedere, magari sullo sfondo, sfuocati, quei due personaggi vestiti da para militari e pieni di armi, veri e propri angeli della morte. E quando la scena finale arriva si vorrebbe non averla aspettata, perché ci si vergogna della nostra brama di immagini violente, sapendo benissimo che è impossibile fermarli, si guarda la gente cadere come birilli, senza più possibilità di alzarsi, e si vuole vederne altri, con la voglia di sapere dove il gioco andrà a finire…eh, si, perché di gioco si trattò, come dice uno dei due ragazzi assassini: “oggi ci dobbiamo divertire!”. E sembra quasi che non solo i killers giochino, ma anche altri personaggi, come il nero che affronta tranquillamente l’assassino con il petto in fuori, o altri che non corrono scappando, ma camminano. Dicevamo dello spettatore dentro il film, ma distaccato, grazie anche alla grande tecnica di Van Sant, qui espressa ai suoi massimi livelli, e soprattutto al vero grande pregio della pellicola: il suono, naturale, quasi in presa diretta, voci di corridoio, discorsi della gente, i silenzi, i fruscii di sottofondo e, per stemperare il senso di inquietudine, la musica di Beethoven suonata da uno degli assassini. E intanto durante il film, nella migliore e più naturale delle simbologie, il cielo si copre e diviene cupo, il presagio di morte è lì, visibile a tutti, come l’innaturalezza che muove le persone guarda a caso nelle situazioni più ottimali, perfette, come lo era appunto il liceo-modello di Columbine. In questa maniera ci rendiamo conto ancora una volta che la società americana (e anche un po’ quella del nord Europa) ha il cancro nel suo seno, e per questo rimane ancora più stupita di questi avvenimenti; noi, per contro, rimaniamo sbigottiti e ci chiediamo come certe tragedie non capitino più spesso, per ricordarci ancora una volta che la follia è lì, di fianco a noi, un millimetro sotto le belle apparenze, e sembra proprio che noi stentiamo a vederla. Beh, almeno in questo caso ci tentiamo, grazie ad un film che probabilmente verrà ricordato come uno dei più coraggiosi della storia del cinema.
L’elefante è lì davanti a noi, ognuno ne esamina una sua parte cercandone il significato, ma nessuno riesce a vederne l’insieme…