Una della molte malattie di cui il cinema italiano d’oggi soffre pare essere senz’altro la mancanza di creatività dei nostri sceneggiatori e registi. Una malattia che si manifesta attraverso l’enorme difficoltà odierna di parlare con semplicità e di cimentarsi con storie originali nella loro “ordinarietà”. Fortunatamente, il dopoguerra ci offerse ben altro scenario, soprattutto da noi, ma anche all’estero. Negli anni’50 si usava scrivere e dirigere commedie troppo frettolosamente definite di “serie B”, interpretate tuttavia da “mostri sacri”, solo in un secondo momento riconosciuti tali dalla miope critica cinematografica. Oggi possiamo dire, che tali opere non hanno nulla da invidiare ai cosiddetti film di “serie A”, troppo intenti a guardarsi allo specchio.
“Il coraggio” di Domenico Palella, è un esempio di quel cinema rimpianto. Diretto nel 1955, ha per protagonisti il grande Totò e un Gino Cervi, già famoso per l’interpretazione di Peppone in “Don Camillo”. La trama è tratta da un atto unico scritto dal semisconosciuto Augusto Novelli: il disoccupato “cronico” Gennaro Vaccariello (Totò), stanco della vita, decide di suicidarsi gettandosi da un ponte sul Tevere a Roma. Avvistato dall’industriale Paoloni (G.Cervi), viene da questi tratto in salvo e perciò premiato pubblicamente per l’eroismo dimostrato. Vaccariello tuttavia, non gradisce il salvataggio e rimprovera il gesto all’industriale. Egli non ha chiesto d’essere salvato, quindi chiede d’essere mantenuto a casa sua con tutta la sua famiglia. L’invadenza di Vaccariello in casa di Paoloni supera ogni limite, spingendo il padrone di casa a chiedersi addirittura “perché l’ha fatto!”. Ma proprio quando il disgraziato capisce di non essere gradito, ritentando nuovamente il suicidio (questa volta con la pistola), ecco che interviene l’amore tra la figlia di Vaccariello e il figlio di Paoloni. I due protagonisti diventano consuoceri, poi soci in affari.
“Il coraggio” ha un “plot” molto semplice, eppure la vicenda desta interesse allo spettatore per il suo insolito dipanarsi. Lo schema resta quello della commedia, tinta però di un velo agrodolce, cui la maschera tragicomica di Totò contribuisce a rendere. L’attore infatti utilizza qui entrambi i codici espressivi, quello comico e quello drammatico, e il regista equilibra con saggezza le due componenti, così come fece in “Destinazione Piovarolo” dell’anno prima. Ne “Il coraggio”, il personaggio popolare interpretato da Totò, è inserito suo malgrado nel milieu borghese nostrano, che lo giudica come al suo solito, troppo superficialmente, senza cogliere le qualità dell’uomo se non alla fine del film. Gino Cervi, infine, è un’ arma preziosa per il film, l’interprete ideale grazie alla misura e all’equilibrio da contrapporre alla vulcanica istrionicità di Totò.
Il risultato di tutto ciò, è un film di serie B, senza troppe pretese per l’epoca, ma che non ci sentiremmo di cambiare con molti prodotti titolati che il convento oggi ci propina.
(scritta nel giugno 2005)