Francesco Ongaro

Francesco Ongaro Della stirpe di caino


Edizioni Il Foglio, Piombino, 2004, pp. 171.

di Gianni Trapletti
Come si può raccontare la guerra? Intendo: evitando la retorica dell’esaltazione del guerriero, la storia già epica e poi hollywoodiana dell’eroe combattente, schivando il copione della sceneggiata della vita cameratesca dei commilitoni, la solfa dei maschi uniti nel conseguimento della vittoria contro i cattivi. Bisogna considerare che non è più accettabile la presentazione romantica della guerra, perché le vittime delle guerre recenti sono i civili, intere popolazioni massacrate, internate in campi di concentramento (e no, non sto parlando del nazismo, né di cose accadute solo in un passato “lontano”), quelli che delinquenzialmente sono stati definiti i ‘danni collaterali’. Il Novecento è un secolo che gronda sangue, il terzo millennio continua sulla stessa strada. Allora: come raccontare l’impegno umano profuso nell’omicidio di massa, come dare voce a chi non ne ha più, – si sa i morti non parlano - e ai sopravvissuti troppe volte messi a tacere?
Francesco Ongaro racconta una storia indivuale, quella di Adem. A Sarajevo muore sua moglie, colpita da una scheggia mentre era impegnata a rammendare un calzino; da Sarajevo fa fuggire la figlia Anela, perché in città non ha un futuro da offrire alla bambina. Nella città cinta dall’assedio trascina le proprie giornate il protagonista, incontra altri che come lui faticosamente tirano a campare tenendo la testa bassa e camminando rasenti i muri. Condivide con gli altri carcerati a cielo aperto la ricerca di cibo e acqua. Soprattutto ricorda, ripensa a ciò che Sarajevo era prima, e pare che ciò che fu, anzi sia, irrimediabilmente perso.
La guerra è questo clima di stravolgimento dell’esistenza, questa esperienza che distrugge il passato e sembra rendere impossibile un futuro di vita nuovamente in pace. Adem decide di non dimenticare, e con lui i concittadini, tanto che infine riconduce a Sarajevo anche la figlia: affinché si possa ancora tentare un futuro diverso dalle devastazioni, dai ruderi del presente.
L’inferno è già tra noi, afferma Italo Calvino nell’epigrafe al libro. E davvero la storia recente dell’umanità appare come una sequela di assassini fratricidi, di cosiddette ‘zone calde’ - l’inferno, si sa, è fuoco divorante - sparse qua e là per il globo dove Caino è intento ad ammazzare l’incolpevole Abele.
Sarajevo è divenuta suo malgrado quasi il prototipo della ferocia umana. Il suo essere abbracciata dai monti si è trasformato una morsa implacabile che stritola: la città che tutti accoglieva è stata trasformata dall’assedio nella gabbia/poligono di tiro da cui è impossibile fuggire. Una novella Orano di Camus dove non è il morbo a far sterminio, ma un esercito di ex-vicini di casa, composto da criminali ubriachi di violenza, ma anche da miliziani volontari del fine settimana: già, c’erano snipers (cecchini) part-time, civili lavoratori nei giorni feriali, padri di famiglia magari premurosi, assassini di inermi solo durante il fine settimana.
Ci sono motivazioni politiche, radici culturali, dissidi etnici, interessi economici, un sacco di ragioni che qualcuno giudicò buone per mettere in scena la mattanza, e il libro lascia intravedere in prospettiva l’indagine di documentazione storica svolta dall’autore. Ma si tratta solo del fondale in cui la vicenda è ambientata, che mantiene la sua sua natura narrativa, di storia raccontata con sensibilità di romanziere. La scrittura è a un tempo piana ed elegante, essenziale senza essere trasandata, in una parola: misurata. La lettura del romanzo è avvincente e piacevole (e questo non suoni oltraggioso rispetto al tema trattato). E dà da pensare: alla malvagità che noi uomini riusciamo a dimostrare, all’insensatezza del mondo che costruiamo (le guerre non capitano, sono preparate, pianificate, volute), al silenzio cui sono obbligate le vittime, ma pure alla speranza, alla determinazione di continuare, ricominciare a vivere. Senza dimenticare.

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