Henrik Ibsen

Henrik Ibsen Hedda Gabler


Letteratura Straniera | Classici | Teatro

21/02/2014 di Alessandro Leone
Henrik Ibsen è uno dei più abili scrutatori della società, così abile che le sue analisi, intagliate di un disprezzo esaltante, non finiscono mai di esser così contemporanee. Lui che detestava la concezione maschilista della sua Norvegia si trova a combattere con un personaggio privo di qualità, per giunta una donna: Hedda Gabler. Si dice che in Italia, vuoi le errate interpretazioni che si allontanano in maniera determinante dai nodi focali del dramma e vuoi un pubblico restio, non sia piaciuto. Colpa di un paese perennemente abituato alla figura dell’eroina, una di quelle che di fronte alla freddezza del capolavoro Ibseniano si sfalderebbe come un fantoccio.
Innanzitutto il titolo, retaggio di un’infanzia che oramai più non le appartiene ma di cui conserva solo il nome (e delle pistole). Per Hedda non è importante da quale estrazione sociale si provenga poiché lei è superiore in un certo qual modo a tutto il circondario e dall’alto della sua superiorità punta al ruolo di burattinaio che condiziona e muove le vite umane. Ma ella è anche intrappolata in un mondo fatto di costrizioni sociali, nella quale un figura altamente orgogliosa come lei non può competere senza un riconoscimento pubblico.
E così Hedda è la signora Tesman, letteralmente buttatasi tra le braccia di un uomo che non ama, ingenuo, paonazzo e soprattutto debole di fronte al suo strapotere. E’ lei a prendere il comando della casa, ad inveire contro il marito, ma staremo presto a vedere che la sua capacità di persuasione va oltre la sfera coniugale.
Nella noia quotidiana, Hedda sembra trovare vitalità nel sotterfugio, nel tentativo di stravolgere le vite altrui manipolandole con una sana dose di ironia e terrore. Questo succede alla signorina Elvsted, compagna di giochi e di lavoro dell’acerrimo nemico intellettuale di Tesman: Lovborg. E nonostante tutto, anche lui cade nella cospirazione. Nel tentativo di liberarsi di un passato fatto di scorribande, orge sfrenate, viene inevitabilmente reinserito nel suo habitat schierandosi contro le persone e perdendo il frutto di un lavoro dissennato e di sicuro successo: un manoscritto che gli avrebbe portato la gloria.
Ma non è perso completamente, lo ha Hedda, ma nonostante i consigli del marito, lo nasconde e lo dà in pasto alle fiamme. Solo così può terminare l’opera, indurre Lovborg al suicidio in “bellezza”, come atto di ribellione alla vita e di consacrazione. Non è sempre così facile e se tutti soccombono sotto il suo strapotere così non è per chi potere lo ha davvero.
L’assessore Brak, che fin dall’inizio della storia frequenta attivamente la famiglia, non aspettava altro che una traccia per avere in pugno la donna e quella traccia è la pistola che Hedda ha volutamente donato a Lovborg. Ma non solo. Lovborg non si è suicidato ma è stato ucciso. Addio atto di assoluta bellezza. Addio libertà di azione. Addio vita. Non resta che rifiutarla prendendosi gioco un’ultima volta di essa intonando un canto e rinnovando il bottino di morti.
Una critica aspra sul potere e sulla persuasione, sulla freddezza e l’egoismo, sullo sfondo di un destino ineluttabile. Hedda nient’altro è che l’uomo o la donna di tutti i giorni, quello che di momento in momento agisce per uno scopo che lo riguarda in un modo o nell’altro. 


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