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Eels Dieci anni di Novo Pop

02/04/2006 di Maurizio Pratelli e Christian Verzeletti

#Eels

Speciale Eels - Dieci anni di Novo Pop

Part 1: Il Novo Pop

Dieci anni di "Novo Pop": tanti ne sono trascorsi dal 13 agosto 1996, data d'esordio della sigla Eels sotto l'egidia della Dreamworks con quel "Beautiful freak" che già conteneva in nuce quello che gli anni a venire ci avrebbero riservato nell'arco di sei dischi.

In realtà non fu esordio vero e proprio, perché la mente responsabile del progetto aveva già concepito due lavori a nome di Mr. E, apostrofandosi con lo pseudonimo che in piena adolescenza gli amici gli avevano affibiato: la lettera E, iniziale del cognome Everett, serviva per non confondere Mark con altri omonimi tra i compagni. Presto però divenne simbolo di un'identità non ancora sviluppata, timida e segreta, che lo stesso Mark Oliver Everett scelse di mantenere come sigla delle sue prime uscite fino al raggiungimento di una forma matura.
Il primo disco a nome Eels conteneva infatti quanto abbozzato in "A man called E" e "Broken toy shop", ma anche quanto assimilato in un'adolescenza passata ad ascoltare i dischi della sorella Elizabeth (tra cui "After the gold rush" di Neil Young) e in una giovinezza vissuta a Los Angeles. Ciò che più conta è che, in poco meno di quarantaquattro minuti, "Beautiful freak" riassumeva le tendenze dell'ultima decade e preannunciava quelle che sarebbero arrivate successivamente da lì al Duemila. Vale la pena allora parlare di "dieci anni di Novo Pop", perché di un suono nuovo o simil-nuovo si è trattato. Di uno stile sonoro che in ogni caso è arrivato a produrre forme brillanti: raffinate e popolari, ricercate e cantabili, elaborate in un laboratorio di linguaggi personali e moderni.
L'assonanza del nostro titolo va ovviamente al primo successo degli Eels, a quella "Novocaine for the soul" che già all'epoca era manifesto di un pop alienato. Ma ci piace anche lasciare che il termine provochi un rimando più improbabile e più spostato indietro nel tempo: a qualcuno l'aggettivo "Novo" potrebbe infatti richiamare alla mente la scuola medioevale dello Stilnovo che produceva appunto forme di linguaggio nuovo osando rimodellare uno stile tradizionale fossilizzato sull'uso comune.
Gli Eels d'altronde hanno sempre preso la musica pop(olare) come materia di base: quel pop che negli anni '80 era scaduto a becera forma commerciale, lanciato sul mercato in confezioni plastificate dai sintetizzatori, lo hanno inglobato con rimandi di musica colta (classica e da camera) e con un bagaglio rock di tutto rispetto (blues, soul e buone dosi di attitudini underground). Ovviamente sfruttando quanto messo a disposizione in quelle scuole di mestieri non riconosciute come arte ufficiale che sono gli studi di registrazione a cavallo tra il XX e XXI secolo: basso, batteria, chitarre, microfoni, ma anche wurlitzer, chamberlin e keyboards varie. Con in più qualche strumento a fiato, trombone, e non ultimi loops e campionamenti.
Basterebbero pochi passaggi di "Rags to rags" o di "Mental" per far schiattare d'invidia molte band di presunto indie-rock che negli anni a seguire si e ci dannarono l'anima nel tentativo di catturare la stessa ricercata immediatezza. Senza riuscirci e senza disporre della metà delle idee contenute in "Beautiful freak".
Allo stesso modo basterebbero gli arrangiamenti per tastiere della title-track, di "Spunky" o di "Your lucky day in hell" per capire da dove provengono certe partiture sviluppate nell'ultimo lavoro in studio ("Blinking lights and other revelations") piuttosto che nei dischi dal vivo "Oh, what a beautiful morning" (con tanto di orchestra) e "Live at Town hall" (con un quartetto d'archi).
Gli Eels hanno liberato una volta di più il pop-rock di qualità dalla presunzione di dover vendere e di volere allo stesso tempo essere arte. Sin dall'inizio la loro musica è stata immediata ma non commerciale, ricercata ma non dotta, libera da quelle inutili pedanterie di cui il rock si è fregiato ogni volta che si è messo in testa di ottenere un attestato di laurea in materie più o meno classiche.





Il pop degli Eels non è perciò semplicisticamente nuovo (e frivolo), come si fregiano di esserlo in troppi in questo campo, ma è appunto novo. Ci perdonino gli studiosi di umanistica, ma l'aggettivo se si vuole è anche un latinismo, che rimanda ad una forma d'espressione ben strutturata e ancora necessaria, tuttaltro che superata.
Il termine "Novo Pop" porta con sé una buona dose di presunzione, derivata dalla stessa che gli Eels hanno più volte dichiarato al mondo a partire proprio da "Beautiful freak": "One day the world will be ready for you / And wonder how they didn't see" ("Un giorno il mondo sarà pronto per te / e allora si chiederanno come hanno fatto a non accorgersi prima").

Part 2: Il mondo di Mr. E

Partiamo da dove comincia la musica: "Life is hard and so am I", esordiscono così gli Eels. Le prime parole della creatura non sono certo rassicuranti e rivelano sin da subito un mondo avverso, sia che lo si guardi dall'interno che dall'esterno.
Emblematici nel loro essere carichi di disagio sono quasi sempre gli incipit di ogni album, a suggerire che sin dal momento della nascita è insito nella persona un lato contorto, esasperato poi dalla realtà con cui si viene a contatto: basti andare a spulciare nella traccia iniziale di "Electro-shock blues" per scoprire nelle parole di Elizabeth (la sorella suicida?) una dichiarazione che non lascia spazio alla speranza, "my life is shit and piss". Oppure nell'attacco di "Souljacker", "Life ain't pretty for a dog faced boy", ma ancora di più in quello di "Shootenanny!": "When i was born the doctor said / there's something wrong inside that baby head" ("Il giorno che sono nato il dottore ha detto / che c'era qualcosa di sbagliato dentro la testa di quel bambino"). È questa una visione che scaturisce da un'osservazione del mondo condotta da un punto di vista avulso e carente di relazioni ordinarie: c'è quindi un approccio autobiografico, come altrimenti non potrebbe essere per un artista sincero, sottolineato e sviluppato con quelli che sono i mezzi della narrazione e dell'immaginazione.
Mark Oliver Everett infatti ha sempre giocato con il proprio look proponendo un'immagine di sé sull'orlo della follia. Quante volte lo si è potuto associare ad un ragazzino disadattato, ad uno scienziato pazzo, ad un intellettuale dai tratti freak, ad un topo da biblioteca, ad un dottore scriteriato, ad un bambino prodigio e chissà a cos'altro ancora?
Evidente il rimando alle proprie origini, che la stampa ha colto anche in eccesso, soprattutto in considerazione di un padre scienziato che da una parte ha lavorato sulla fisica quantistica e dall'altra ha elaborato idee che con la scienza poco avevano a spartire. Ricordiamo per esempio la teoria degli universi paralleli, proprio quella che ha ispirato Star Trek e molte altre storie di fantascienza.
Bastino le parole di "World of shit" per chiarire il rapporto di Mark con i genitori, anche dopo la loro scomparsa, "Daddy was a troubled genius / mama was a real good egg", che ben riassumono la precarietà del genio paterno e la fragilità dell'affetto materno
Sono talento e fantasia, personalità e debolezza a definire l'alterità degli Eels creando un mondo che aderisce alla realtà come un fumetto: pressocchè ogni canzone di Mr. E è una via di fuga e allo stesso tempo uno specchio della società. Fumetti, disegni più o meno infantili e immagini dell'infanzia sono sparsi ovunque nella sua produzione da "Electro-shock blues" a "Blinking lights".
Anche le copertine dei dischi sono segnali non indifferenti, indici più o meno evidenti di un disagio che parte sempre dall'infanzia: i bambini sono onnipresenti, da "Beautiful freak" a "Blinking lights" facendo venire il sospetto che si tratti proprio della stessa creatura in diverse fasi della sua esistenza.
Così come i cani, razza a cui Mr. E deve sentirsi particolarmente affine, al punto che nell'unica copertina in cui non compare una figura infantile ("Souljacker") c'è un evidente gioco di somiglianze tra uomo e cane, entrambi con espressione afflitta, rifugiati dietro al proprio pelo.





Di cani sono popolate le canzoni degli Eels ma anche di uccelli e di pistole, forse immagini della vita e della morte, estremi di una medesima esperienza che come spesso succede, non solo nel pop, anela a vivere ma si scontra con la morte. Innumerevoli i casi in cui è citata la morte e non solo in "Electro-shock blues" o nel recente "Blinking lights", ma anche nel più spensierato, per così dire, "Daisies of the galaxy". Anche la morte ovviamente è insita nell'individuo (spesso sotto forma di un cancro) e contemporaneamente indotta da una società, che intacca persino i sogni ("Trouble with dreams") e proietta bombe in cielo ("3 Speed").
Insomma un mondo di merda come è chiamato senza mezzi termini a più riprese, ma anche un mondo di luce, di voglia di vivere a tratti capace di trascendere qualunque realtà come succede in "A daisy through concrete": "un aereoplano sta volando lassù in cielo / fa una scia di linee bianche / con la forma di un cuore / o forse di una torta". Anche in queste occasioni però non è mai un mondo beatamente felice perché qualcosa si annida sotto l'umore del soggetto o addirittura sopra fino a schiacciarlo. Qualcosa che già la voce di Mr. E riesce a trasmettere ancora prima dei testi, con quel suo modo di cantare come se avesse appena ingioato un'aspirina. Qualcosa che gli arrangiamenti enfatizzano con la loro dolente altalena di armonie e di improvvisi disagi, che non trovano soddisfazione completa nemmeno quando i ritornelli arrivano a suonare tra distratti piani-giocatollo e idilliache campane. E che non trova pace neppure nel dispiegarsi di una sezione d'archi.
Vale la pena ricordare poi che gli Eels hanno prestato alcune delle loro canzoni al cinema e anche qui la scelta non è stata casuale, ma indirizzata a pellicole centrate sull'alterità (tra cui "Shrek", "Shrek 2", "American beauty" e "The end of violence").
Il cinema che fa parte del mondo degli Eels può intrattenere e divertire, come il pop, ma lo fa interrogando e disturbando le regole del quieto vivere: i protagonisti di "Daisies of the galaxy" assistono infatti ad una proiezione sulla fine del mondo che non lascia alcun posto in cui i due possano andare.
Un mondo senza via d'uscita? Disperato? Contorto? Complesso? Sì, ma bisogna ricordarsi che tutto riesce a stare sempre dentro una canzone.

Part 3: I dischi in studio

  “Beautiful Freak” 1996, Dreamworks  *****
Un esordio da strabuzzare gli occhi, proprio come la bambina in copertina. Tre i pezzi da novanta, “Novocaine for the soul”, “Beautiful freak” e “My beloved monster”, ma tutta la scaletta è da mandare a memoria, perfetta almeno fino a “Mental”. Un disco di canzoni prodigiose per la loro immediatezza e anche per tutto ciò che insinuano al di sotto della loro superificie pop: arrangiamenti schizzati di keyboards e fiati e testi che cantano un’interiorità disadattata in cui si specchia  un’intero macrocosmo. “One day i'll come through my american dream / but it won't mean a fucking thing”.

“Electro-shock blues” 1998, Dreamworks  ****
Adulato dalla critica per il suo andamento oscuro presumibilmente dovuto alla  scomparsa del padre, della sorella e in seguito anche della madre dell’autore, “Electro-shock blues” è un album dai toni cupi in cui però un’attitudine giocosa, che impareremo a conoscere sempre meglio di disco in disco, porta lampi di luce infastidita. Keyboards, archi e qualche beat, ma soprattutto un blues urbano e moderno rimasticato da un intestino predisposto al rigetto: sentire per credere “Going to your funeral pt. 1” o “Hospital food”. Da ricordare “Cancer for the cure” e “Last stop: this town” e un gioiellino con Grant Lee Phillips e T-Bone Burnett che recita “Got a sky that looks like heaven / got an earth that looks like shit” (“Climbing to the moon”).

“Daisies of the galaxy” 2000, Dreamworks ****
Ancora una volta emblematica la copertina, con un immagine bucolica che ben riassume l’atmosfera del disco: le canzoni sono tessute con esili orchestrazioni di fiati e di archi, che Mr. E sembra aver concepito in un pomeriggio estivo, sdraiato su un prato a giocare coi fili d’erba. Tra uccelli, fiori e passeggiate i brani sono quanto di più naturalista gli Eels abbiano prodotto, ma come al solito nascondono scheletri e oggetti fuori posto (“spiders in the kitchen”). In mezzo a reminiscenze bacharachiane,  visioni alla Martin Luther King personalizzate e improvvisi colpi di groove, ci sono almeno due pezzi che entrano di diritto tra i più rappresentativi degli Eels: “I like birds” e “Mr. E beautiful blues”.
Da questo disco e da un sogno di Butch, scaturì il tour con la “The Eels Orchstra”.

“Souljacker” 2001, Dreamworks  *** ½
In cabina di regia compare John Parish ed il disco assume i tratti di un certo rock underground americano a partire dall’attacco di “Dog faced boy” e dallo pseudo-blues di “That’s not really funny” prima squartato e poi arrangiato con i soliti gingilli. Rispetto ai precedenti “Electro-shock blues” e “Daisies of the galaxy”, l’ascolto corre  più frenetico con ritmi che richiamano al second-line o ad un rock’n’roll moltiplicato per una furia punk. Non mancano tastiere, beat e arrangiamenti fantasiosi tra cui anche qualche effetto dubbeggiante, ma sono le dosi rock a compattare il disco in un modo che ancora una volta stupisce.

“Shootenanny!” 2003, Dreamworks ***
Un buon disco che contiene tutti le componenti della musica degli Eels senza però toccare i picchi raggiunti in precedenza. Tra qualche pseudo-blues, un rock lo-fi, atmosfere di stampo barrettiano, beat moderni e brevi orchestrazioni per archi e tastiere, la creatura si muove sempre in modo bizzarro evitando di percorrere quelli che sono i normali sentieri del pop. Stavolta però non lascia impronte da seguire a tutti i costi.

“Blinking lights and other revelations” 2005, Vagrant ****
Gli Eels tornano alla grande, addirittura con un disco doppio che tra alti (tanti) e bassi (pochi) rappresenta l’altalena della vita in un gioco di luci intermittenti (“Blinking lights”, appunto). La qualità è tanta che le apparizioni di Tom Waits, Peter Buck e John Sebastian risultano casuali, poco più che segnali di apprezzamento per la musica di un collega. Il pop di Mr. E continua a cantare anche di morte e di drammi personali, ma raggiunge un liricismo d’autore assoluto. Numerosi i pezzi da conservare, ma più che altro “Blinking lights” è un’opera da ascoltare nel suo insieme.

Part 4: I live

OH WHAT A BEAUTIFUL MORNING
“Oh What a Beautiful Morning” 2000, E Works ***
C'è chi pensa che questo sia un disco necessario ai soli fan degli Eels. Ed in parte è vero perchè sembra un live confezionato proprio per soddisfare un certo tipo di voglie. Un collage che riprende varie tappe del tour di "Daises of the Galaxy" in compagnia di Lisa Germano e del batterista Butch Norman, che aveva lanciato l'idea di questo pazzo tour con l'orchestra come cura all'ennesima depressione di Mr.E. Il disco è completato da alcune solo performance di Mr. E. che apriva ai concerti di Fiona Apple. Forse non indispensabile, ma certamente significativo di quanta varietà possano esprimere dal vivo gli Eels.

ELECTRO-SHOCK BLUES SHOW
“Electro Schock Blues Show” 2002, E Works *** ½
Registrato nel 1998 e stampato solo nel 2002, questo live originariamente edito in digipack con tanto di booklet lo si può acquistare su I-Tunes, così come quelle "B-sides & Rarity 1996-2003", che meritebbero certamente una  pubblicazione ufficiale, mentre è molto più difficile da reperire in cd. Dieci brani e cinque bonus tracks che danno un filo di luce ai toni cupi dell'album che motiva questo tour. Ascoltateli mentre fanno i Rolling Stone in "My Beloved Monster" e fatelo vostro perchè è il disco più live degli eels.

16 tons
“Sixteen Tons (Ten Songs)” 2003, Kcrw Session *** ½

Disco reperibile solo on-line o ai concerti degli Eels, è  una registrazione in presa diretta per la radio, di rara bellezza. "I'm a loser", l'iniziale cover dei Beatles vale da sola l'acquisto. Ma non è l'unica gemma di questa performance: tra i "soliti" gioielli di casa Eels, spiccano la magia acustica di "Last stop: this town" e l'illuminata title-track, versione travolgente del brano di Merle Travis. Innegabile, vista la location, che sia il più asettico live degli Eels, senza applausi come piace a Mr.E. Non averlo resta però un peccato. Grave per i fan.

“Eels with strings Live at Town Hall” 2006, Vagrant ****
Probabilmente il miglior progetto live degli Eels, almeno tra quelli pubblicati su disco. Figlio naturale di "Blinking Lights", porta a compimento la strada che il padre aveva tracciato. Le sue canzoni ben si prestano a viaggiare sulle ali di violini e viole, iniziando dalla struggente "Blinking Lights (for me)" e proseguendo con "Bride of Theme From Blinking Lights", uno strumentale di rara capacità emotiva. Il magnetismo degli Eels, in questa dimensione, è incredibile, sospinto da una scaletta che non cede mai, che tocca  picchi di coinvolgimento straordinario.

Part 5: Prima degli Eels

"A Man Called (E)" - Polydor 1992 ****
L'esordio di Mark Oliver Everett è un imperdibile preludio di quanto arriverà. Per quanto si tratti di undici brani pop mai banali, che si rifanno tanto ai Beach Boys quanto, in alcuni passaggi, a Paul McCartney o Elton John. Eppure con voce acerba ma già affascinante, Mr. E, assitito come sempre da un'ottima scrittura, non è così lontano dalla strada che lo porterà a incidere il primo capolavoro degli Eels, quattro anni più tardi. "Mockinbird Franklin" è il brano che più si avvicina a quel che sarà, ma nulla in questo album è da buttare e "Mr. E Tunes" è uno dei momenti migliori.

Broken Toy Shop - Polidor 1993 ***
Meno fresco del precedente lavoro, certamente non un brutto disco. Tra le pieghe di queste deliziose canzoni si cela però il bisogno di nuovi orizzonti che ben sappiamo dove porteranno. Infatti anche questo secondo album solista mette in chiaro che gli Eels saranno di nome una band e di fatto un progetto artistico tutto frutto del genio creativo di Mr. E. Abile o fortunato a trovare compagni che di volta in volta sapranno  poi sostenerlo e stimolarlo. E qui "Permanent Broken Heart" la dice lunga sulle perenni conflittualità interiori di Everett. Senza le quali chissà.