Part
3: I dischi in studio
|
“Beautiful Freak” 1996, Dreamworks
***** |
|
Un esordio
da strabuzzare gli occhi, proprio come la bambina in copertina. Tre i pezzi
da novanta, “Novocaine for the soul”, “Beautiful freak” e “My beloved monster”,
ma tutta la scaletta è da mandare a memoria, perfetta almeno fino a “Mental”.
Un disco di canzoni prodigiose per la loro immediatezza e anche per tutto
ciò che insinuano al di sotto della loro superificie pop: arrangiamenti
schizzati di keyboards e fiati e testi che cantano un’interiorità disadattata
in cui si specchia un’intero macrocosmo. “One day i'll come through my
american dream / but it won't mean a fucking thing”.
|
“Electro-shock blues” 1998, Dreamworks
**** |
|
Adulato
dalla critica per il suo andamento oscuro presumibilmente dovuto alla scomparsa
del padre, della sorella e in seguito anche della madre dell’autore, “Electro-shock
blues” è un album dai toni cupi in cui però un’attitudine giocosa, che impareremo
a conoscere sempre meglio di disco in disco, porta lampi di luce infastidita.
Keyboards, archi e qualche beat, ma soprattutto un blues urbano e moderno
rimasticato da un intestino predisposto al rigetto: sentire per credere
“Going to your funeral pt. 1” o “Hospital food”. Da ricordare “Cancer for
the cure” e “Last stop: this town” e un gioiellino con Grant Lee Phillips
e T-Bone Burnett che recita “Got a sky that looks like heaven / got an earth
that looks like shit” (“Climbing to the moon”).
|
“Daisies
of the galaxy” 2000, Dreamworks **** |
|
Ancora
una volta emblematica la copertina, con un immagine bucolica che ben riassume
l’atmosfera del disco: le canzoni sono tessute con esili orchestrazioni
di fiati e di archi, che Mr. E sembra aver concepito in un pomeriggio estivo,
sdraiato su un prato a giocare coi fili d’erba. Tra uccelli, fiori e passeggiate
i brani sono quanto di più naturalista gli Eels abbiano prodotto, ma come
al solito nascondono scheletri e oggetti fuori posto (“spiders in the kitchen”).
In mezzo a reminiscenze bacharachiane, visioni alla Martin Luther King
personalizzate e improvvisi colpi di groove, ci sono almeno due pezzi che
entrano di diritto tra i più rappresentativi degli Eels: “I like birds”
e “Mr. E beautiful blues”.
Da
questo disco e da un sogno di Butch, scaturì il tour con la “The Eels Orchstra”.
|
“Souljacker” 2001, Dreamworks
*** ½ |
|
In cabina
di regia compare John Parish ed il disco assume i tratti di un certo rock
underground americano a partire dall’attacco di “Dog faced boy” e dallo
pseudo-blues di “That’s not really funny” prima squartato e poi arrangiato
con i soliti gingilli. Rispetto ai precedenti “Electro-shock blues” e “Daisies
of the galaxy”, l’ascolto corre più frenetico con ritmi che richiamano
al second-line o ad un rock’n’roll moltiplicato per una furia punk. Non
mancano tastiere, beat e arrangiamenti fantasiosi tra cui anche qualche
effetto dubbeggiante, ma sono le dosi rock a compattare il disco in un modo
che ancora una volta stupisce.
|
“Shootenanny!” 2003, Dreamworks *** |
|
Un buon
disco che contiene tutti le componenti della musica degli Eels senza però
toccare i picchi raggiunti in precedenza. Tra qualche pseudo-blues, un rock
lo-fi, atmosfere di stampo barrettiano, beat moderni e brevi orchestrazioni
per archi e tastiere, la creatura si muove sempre in modo bizzarro evitando
di percorrere quelli che sono i normali sentieri del pop. Stavolta però
non lascia impronte da seguire a tutti i costi.
|
“Blinking lights and other revelations”
2005, Vagrant **** |
|
Gli Eels
tornano alla grande, addirittura con un disco doppio che tra alti (tanti)
e bassi (pochi) rappresenta l’altalena della vita in un gioco di luci intermittenti
(“Blinking lights”, appunto). La qualità è tanta che le apparizioni di Tom
Waits, Peter Buck e John Sebastian risultano casuali, poco più che segnali
di apprezzamento per la musica di un collega. Il pop di Mr. E continua a
cantare anche di morte e di drammi personali, ma raggiunge un liricismo
d’autore assoluto. Numerosi i pezzi da conservare, ma più che altro “Blinking
lights” è un’opera da ascoltare nel suo insieme.
Part
4: I live
|
“Oh What a Beautiful Morning” 2000,
E Works *** |
|
C'è chi
pensa che questo sia un disco necessario ai soli fan degli Eels. Ed in parte
è vero perchè sembra un live confezionato proprio per soddisfare un certo
tipo di voglie. Un collage che riprende varie tappe del tour di "Daises
of the Galaxy" in compagnia di Lisa Germano e del batterista Butch
Norman, che aveva lanciato l'idea di questo pazzo tour con l'orchestra come
cura all'ennesima depressione di Mr.E. Il disco è completato da alcune solo
performance di Mr. E. che apriva ai concerti di Fiona Apple. Forse non indispensabile,
ma certamente significativo di quanta varietà possano esprimere dal vivo
gli Eels.
|
“Electro Schock Blues Show” 2002, E
Works *** ½ |
|
Registrato
nel 1998 e stampato solo nel 2002, questo live originariamente edito in
digipack con tanto di booklet lo si può acquistare su I-Tunes, così come
quelle "B-sides & Rarity 1996-2003", che meritebbero certamente
una pubblicazione ufficiale, mentre è molto più difficile da reperire in
cd. Dieci brani e cinque bonus tracks che danno un filo di luce ai toni
cupi dell'album che motiva questo tour. Ascoltateli mentre fanno i Rolling
Stone in "My Beloved Monster" e fatelo vostro perchè è il disco
più live degli eels.
|
“Sixteen Tons (Ten Songs)” 2003,
Kcrw Session *** ½ |
|
Disco
reperibile solo on-line o ai concerti degli Eels, è una registrazione
in presa diretta per la radio, di rara bellezza. "I'm a loser",
l'iniziale cover dei Beatles vale da sola l'acquisto. Ma non è l'unica
gemma di questa performance: tra i "soliti" gioielli di casa
Eels, spiccano la magia acustica di "Last stop: this town" e
l'illuminata title-track, versione travolgente del brano di Merle Travis.
Innegabile, vista la location, che sia il più asettico live degli Eels,
senza applausi come piace a Mr.E. Non averlo resta però un peccato. Grave
per i fan.
|
“Eels with strings Live at Town Hall”
2006, Vagrant **** |
|
Probabilmente
il miglior progetto live degli Eels, almeno tra quelli pubblicati su disco.
Figlio naturale di "Blinking Lights", porta a compimento la strada
che il padre aveva tracciato. Le sue canzoni ben si prestano a viaggiare
sulle ali di violini e viole, iniziando dalla struggente "Blinking
Lights (for me)" e proseguendo con "Bride of Theme From Blinking
Lights", uno strumentale di rara capacità emotiva. Il magnetismo degli
Eels, in questa dimensione, è incredibile, sospinto da una scaletta che
non cede mai, che tocca picchi di coinvolgimento straordinario.
Part
5: Prima degli Eels
|
"A
Man Called (E)" - Polydor
1992 **** |
|
L'esordio
di Mark Oliver Everett è un imperdibile preludio di quanto arriverà. Per
quanto si tratti di undici brani pop mai banali, che si rifanno tanto ai
Beach Boys quanto, in alcuni passaggi, a Paul McCartney o Elton John. Eppure
con voce acerba ma già affascinante, Mr. E, assitito come sempre da un'ottima
scrittura, non è così lontano dalla strada che lo porterà a incidere il
primo capolavoro degli Eels, quattro anni più tardi. "Mockinbird Franklin"
è il brano che più si avvicina a quel che sarà, ma nulla in questo album
è da buttare e "Mr. E Tunes" è uno dei momenti migliori.
|
Broken Toy Shop - Polidor 1993
*** |
|
Meno
fresco del precedente lavoro, certamente non un brutto disco. Tra le pieghe
di queste deliziose canzoni si cela però il bisogno di nuovi orizzonti che
ben sappiamo dove porteranno. Infatti anche questo secondo album solista
mette in chiaro che gli Eels saranno di nome una band e di fatto un progetto
artistico tutto frutto del genio creativo di Mr. E. Abile o fortunato a
trovare compagni che di volta in volta sapranno poi sostenerlo e stimolarlo.
E qui "Permanent Broken Heart" la dice lunga sulle perenni conflittualità
interiori di Everett. Senza le quali chissà. |