Paolo Recchia Ari's desire
2011 - Millesuoni
La formazione di Paolo affonda solide radici nel jazz classico del periodo bop e successivo, con chiari interessi verso quel segmento portante iniziato da Charlie Parker, tracciato da Sonny Rollins, John Coltrane, Wayne Shorter (in parte) ed interpretato in Italia da Massimo Urbani .
Le coordinate di riferimento sono estremamente interessanti ed anche impegnative, essendo richiami con un evidente rischio di schiacciamento per inevitabili paragoni.
Paolo evita questo rischio grazie ad alcuni elementi che, consci o meno non sappiamo, determinano una freschezza personale nel lavoro; l’assenza di uno strumento armonico come il piano permette un’evidente flessibilità a beneficio della personalità, l’intervento di un ospite alla tromba (e al flicorno) come Alex Sipiagin introduce influssi americani ed europei che arricchiscono i riferimenti possibili, la presenza della granitica sezione ritmica con Nicola Muresu al basso e Nicola Angelucci alla batteria evita elucubrazioni eccessive.
Ne sortisce un disco profondamente radicato nell’hard bop, celebrato con standard quali Tenor Madness e Prent-Up house di Rollins oppure Lazy bird del primo Coltrane e presente anche nei brani autografi come la title track, ma integrato con elementi che a tratti richiamano il modale di Davis, storicamente non così in contraddizione con gli artisti che abbiamo ricordato.
Se prendiamo Ari’s desire o anche Peace hotel non possiamo non notare gli episodi introduttivi, poi richiamati successivamente, basati su tre o quattro note all’unisono tra sax e tromba su di un tappeto ritmico che ci riporta al Miles della fine anni’50; quello che caratterizza qui l’esecuzione è il ricorso ad interplay, intrecci e dialoghi che poco appartenevano al Principe delle Tenebre e che recuperano maggiormente un senso del combo.
Lazy bird, di Coltrane, avrebbe potuto facilmente portare ad un dominio del sax sul resto ma Paolo consente alla tromba di tracciare il tema e di intervenire anche in un chorus di improvvisazione che rende il pezzo molto libero e vivace.
In generale si può dire che l’improvvisazione, pur giocando un ruolo molto importante nell’estetica del disco, resta coerente agli schemi di fondo che vengono richiamati mantenendo compattezza e senso della classicità.
Ci sentiamo di individuare in questo binomio di spontaneità e di vicinanza alla miglior tradizione del jazz moderno il merito maggiore di un lavoro in grado di mettere d’accordo sia i puristi del genere che quelli più interessati all’individuo; sintesi felice proprio perché organica all’arte di Paolo, che merita certamente di essere conosciuta.