Leonard Cohen You Want It Darker
2016 - Columbia
Nulla di strano, in fondo, per chi conosce forme e temi del vecchio Leonard, l’uomo che ha scritto forse la più bella frase a chiusura di una canzone d’amore nella storia di questo genere necessario (“questo è tutto, non ti penso neanche tanto spesso”: Chelsea Hotel #2). Mai contradittorio ma sempre dialettico, attento e spericolato nel procedere sul limite tra tentazioni mondane e ascetismo, colpa ed espiazione, amore carnale e purezza dell’arte, profondità e leggerezza, identità ebraica e pratica buddista, folk d’autore e tentazioni easy-listening, Cohen va dunque accolto con compiacente scetticismo anche quando parla della propria morte, benché le voci sul suo stato di salute e l’età autorizzino i fan a temere quantomeno un’uscita di scena. Ogni suo album è sempre suonato come un addio. Fin dal primo.
Il disco si apre con una preghiera che contiene quasi un coraggioso rimprovero: se Dio è perfetto, l’uomo è imperfezione, se Dio è il guaritore, l’uomo (Cohen stesso, ma anche chiunque altro) è malato e malfermo, se Dio dà le carte, allora Cohen lascia il tavolo, come ribadirà poche tracce più avanti. Però poi riprende la posa da ebreo errante e canta “Hineni”, citando la Genesi, su un coro greve maschile (ovviamente di sapore elettronico: a certi vezzi non rinuncia più), per ribadirlo nel suo inglese signorile: “I’m ready, my Lord”. La successiva Treaty è morbida e adagiata su pochi accordi di piano e archi. Ricorda Anthem, senza la vaga aura trionfale. Si parla subito di un’assenza: “Mi dispiace per lo spettro che ti ho fatto essere, ma solo uno di noi due era reale, ed ero io.” On The Level è musicalmente ancora più dimessa, quasi banale, resa agile solo dall’organo che accenna qualche abbellimento. “Dovrei dare al mio cuore una medaglia per averti lasciata andare, ma ho voltato le spalle al diavolo e le ho voltate anche all’angelo.” Come sempre, non si può avere il bene senza accogliere il male e salvarsi da entrambi significa evitare anche l’amore. Ma la rinuncia spesso è l’unica via, specie, verrebbe da aggiungere, a una certa età: Leaving The Table inizia con un assolo di chitarra quasi spettrale e procede su una progressione classicissima (praticamente il giro di do, con tanto di passaggio in fa maggiore che diventa minore!). Riaffiora inevitabilmente il vecchio monito a venire a patti con la propria “invincibile sconfitta” (come cantava in A Thousand Kisses Deep, in Ten New Songs, forse l’album più denso del suo periodo elettronico da camera): “Lascio il tavolo, sono fuori dal gioco”. Non è chiaro se sia amarezza o rassegnazione, ma la solita incredibile dolcezza risuona nella voce senile e profondissima. If I Didn’t Have Your Love si colloca sul versante opposto: c’è gratitudine e una sorta di brio, ma il brano scivola senza sorprese verso il piccolo capolavoro della successiva It Seemed A Better Way, più oscura e spettrale, costruita su una pulsazione di basso e un tappeto di cori bassi e rischiarata a tratti da un violino quasi dolente. E due violini dal piglio fiddle supportano anche la successiva Steer Your Way, sempre sommessa e forse fin troppo essenziale (uno colpo di piatto tra cantato e parti soliste, specie sul cambio di tonalità, avrebbe potuto giovare). Infine, una ripresa per archi, come se si trattasse dei titoli di coda, scorre con l’ultima traccia verso un recitativo che ribadisce: “Vorrei che ci fosse un patto scritto tra il mio amore e il tuo.”
Come giudicare, dunque, un’opera tanto attesa? Rispetto agli ultimi dischi in studio e dal vivo, manca la magniloquenza della band e anche le sporadiche parentesi acustiche: in You Want It Darker persino i cori femminili sono meno invadenti che in passato e tutto suona essenziale e come trattenuto, al servizio di un recitativo cavernoso e suadente che conferisce peso e forza a ogni sillaba sospirata. Capita di pensare che, se non fosse proprio per la voce, alcune composizioni sembrerebbero deboli. Eppure, oltre all’indubbio mestiere e al lavoro del figlio Adam alla produzione, c’è un’ispirazione che non cessa di stupire, una musicalità più che mai limpida per un disco crepuscolare e insieme incredibilmente potente. Bentornato, vecchio Leonard. E ricorda: “that’s no way to say goodbye.”