Ivan Graziani La città che io vorrei
2013 - Universal
Prendete il testo di Monna Lisa, per esempio. O quello di Motocross. O quello che più vi piace del suo filone “nero” (vastissimo: da Luisa a Dada a Tutto questo cosa c’entra con il R.&R..?. Da Gabriele D’Annunzio a Il Chitarrista; fino a Gangsters). Immaginatevi lo story board delle strofe. Immaginate il ladro alquanto improbabile, alle prese col “custode parigino” che “probabilmente vuole un’altra botta in testa”. O il grullo motorizzato perdere donna e il “250 giallo di marca giapponese” in un sol colpo per mano di “due tipi da galera” bene organizzati. La capacità di raccontare per immagini che aveva Graziani era pari soltanto a quella di confezionare refrain che ti si ficca(va)no in testa al primo ascolto (chi è mai riuscito a non cantare appresso al ritornello di Navi o di Signora bionda dei ciliegi?, giusto per tenerci alla larga da pezzi più conosciuti). Il suo rock - quando non batteva i dintorni dell’hardrock - sapeva essere melodico. Ma non melenso. Ma non banale (giri armonici e simili). E mai fine a se stesso. Funzionale al plot della canzone in tutto e per tutto. Parole e musica al prezzo di uno.
Quanto agli attori delle canzoni di Ivan, sono gli anti-eroi di un’Italia che ha smesso di sognare (e se e quando sogna sa di sognare, vedi Ugo l’italiano, vedi Lucetta tra le stelle). Protagonisti di un “qui e ora” che si consuma senza alibi sovrastrutturali che non siano dettati dalla fattispecie (l’amico furfante in Giulio; Isabella sul treno; in fondo anche il ladro di gioconde in Monna Lisa). Uomini e donne. Gli stessi che si incrociano sul pianerottolo di casa, per strada, magari in chiesa. Ciascuno coi vizi e le virtù toccati in sorte o che più si merita. Nei loro confronti Graziani conserva uno sguardo impersonale, quasi verghiano. Evitando - tranne in rari casi (I lupi; Il prete di Anghiari; Ehi, Padreterno) - la levata di scudi, la decisa presa di posizione. Lascia intuire, finanche in Dada (droga) e Tutto questo cosa c’entra con il R.& R. ? (stupro), il suo dittico più duro. Ivan non amava i precetti. Riusciva a essere asciutto e incisivo quanto bastava per evitare il luogo comune. Tra le cose che meno gli andavano a genio. Per questo, forse, lo star system non lo ha mai accettato del tutto. Compreso poco e - in qualche caso - liquidato come naif.
Era anarchico e autarchico Ivan Graziani. A cominciare dalla voce. Quel falsetto che non si è mai capito se c’era o ci faceva. E dal look, che non aveva. A parte gli occhiali dalla montatura rossa, che diventarono in breve il suo tratto distintivo. Imprestati finanche al maiale che campeggia sulla copertina di Pigro. Una carriera spesa a provocare i benpensanti (In Prudenza mai il testo sfiora il turpiloquio). Le malelingue della canzone che una sera portò a Sanremo (Maledette malelingue) e non piacque. Gli odiati bacchettoni (uno per tutti: il preside irreprensibile di Signorina). I “doppi” (Dr. Jekill & Mr. Hyde). I falsi moralisti. E i saccenti ante litteram (il fantomatico criticatutto di Pigro).
E adesso basta che ci sarebbe da parlare del suo primo La città che io vorrei, rieditato da poco in occasione dei quarant'anni della pubblicazione originale (1973). Un concept-album con dentro messi in fila uno dietro l’altro, i topos dei suoi temi: luoghi e personaggi di una Teramo come metafora, contraltare di una città ideale (utopica?) esistente solo nella testa del chitarrista. Strofe come ritratti in chiaroscuro di drop-out (L’ubriaco, Nah Nah Nah), di vagabondi improbabili Tom Sawyer, di sognatori, scemi e assassini di paese (La città che io vorrei, Luisa). Acquerelli sospesi tra miraggio e realtà, riti di passaggio (L’età gratis, A volte in primavera), illusioni sentimentali sullo sfondo di microcosmi umani & urbani (lo storpio de Il campo della fiera), prove tecniche di autoironia (Situazione, la moglie in ospedale a partorire e Ivan alle prese con le faccende domestiche), su chitarre tenui tenui (e tastiere di Roberto Carlotto), a tratti semplici, a tratti datate, ma con un fascino vintage che non si discute nemmeno e che, anzi, vi raccomando.
Per anni trascurato dalla critica engagè (come buona parte dei dischi di Graziani) La città che io vorre del resto) merita quanto meno una prova d’appello: per via della sua indiscutibile genuinità (filologi e fan fatevi sotto) e per la tecnica chitarristica già in buona evidenza. Il meglio dovrà ancora venire, ma questo cd - rimasterizzato e rimesso in circolo in digitale - è un album che si ri-ascolta molto volentieri.