Gregory Page Love made me drunk
2006 - Seedling Records
Ancora più strano lo è se si pensa che questo cantautore / produttore, che ha lavorato anche con John Doe e A.J. Croce, è giunto all’esordio discografico solo ora dopo una decine di cd realizzati in proprio.
Bizzarrie di un sistema discografico su cui non vale la pena perdere tempo: così la deve pensare anche Page, che ama realizzare i suoi album come fossero capitoli di un diario da tenere sulla propria vita.
“Love made me drunk” è stato ispirato da un viaggio che l’autore ha compiuto a Parigi alla ricerca del padre naturale: una volta incontrato il genitore, Page è rimasto affascinato dal romanticismo della città al punto da scrivere tutto il materiale del disco tra Parigi e la Normandia.
Ha poi registrato a San Diego, dove è conosciuto al punto da potersi permettere la collaborazione di musicisti affermati come Phil Parlapiano, che tra fisarmonica, toy piano, tromba e mandolino determina non poco le atmosfere del disco. Altro contributo fondamentale è quello di Martin Greaves che svaria tra piano, harpsichord, xylofono, wurlitzer, mellotron e organo a pompa. La strumentazione è perfetta per i caroselli folk dall’aria un po’ retrò di Gregory Page, che scrive e canta come fosse uno di quegli artisti da strada che si esibiscono nei vicoli di Parigi.
Fortemente ispirate da melodie franco-europee, le sue canzoni hanno un cuore torbido e palpitante, un foolish heart da innamorato. “Love made me drunk” è infatti una raccolta di cartoline che struggono di malinconia: Page è bravo a conferire ad ogni traccia un’aria anticata che invita l’ascoltatore ad un sogno romantico.
L’iniziale “Bon voyage mon cheri” si muove su una marcetta nostalgica e colloca subito il suo autore a metà strada tra un folksinger e un chansonnier: alcuni passaggi ricordano gli amori europei di Dayna Kurtz e Page, pur non disponendo di una voce tanto portata, riesce comunque a toccare e sedurre. Lo fa in modo intelligente con valzer che tra fisarmonica e violino danzano in piazzette frequentate solo da qualche ubriaco, da vecchi signori con la giacca sgualcita e da angeli con lo sguardo triste.
L’album ha un andamento monotono, ma si fa ascoltare con una partecipazione minuta: qualche variazione viene da alcuni tocchi di swing, dal divertissement di “April in Paris” e dai giochetti delle percussioni e dello xylofono. Quanto basta per sfuggire a toni lamentosi, che rimangono sospesi negli incanti strumentali delle ultime tracce.
“Love made me drunk” è proprio un disco strano, perché lascia commossi con un’espressione d’altri tempi.