
Chiara Vidonis La fame
2022 - FioriRari / distr. Believe
La fame si avvale della produzione artistica di Karim Qqru (The Zen Circus), presente anche come musicista (batteria, basso, synth, chitarra elettrica). Sempre dagli Zen arrivano i “sodali” Francesco Pellegrini (fagotto in Lontano da me) e Fabrizio Pagni (piano e tastiere). Ad arricchire ulteriormente le sonorità arriva anche il violoncello di Alice Micol Moro Era meglio quando non capivo niente e La mia fame, brano in cui l’intreccio tra le parti vocali e la delicatezza degli archi è incantevole come il battere d’ali di una farfalla.
Ascoltando La fame si percepisce la stratificazione di emozioni e vissuto che ha fatto sì che il disco non uscisse tanto per uscire ma fosse pensato e voluto in ogni dettaglio. La cantautrice dichiara al riguardo: “Quando ho capito di avere le canzoni giuste per un secondo disco, mi sono chiesta cosa tutti questi brani avessero in comune […]. Non sapevo dare una risposta precisa, qualsiasi idea mi sembrava forzata, come spesso accade quando si prova a spiegare quello che è il frutto di un processo creativo […]. Ho lasciato quindi che le mie canzoni mi parlassero di loro […] e quello che mi è venuto in mente subito sono state due semplicissime parole che al loro interno contengono un mondo: La fame. La fame è quello che ci fa sempre procedere in avanti, è quell’istinto che ci fa rispondere ai nostri bisogni più bassi ma anche a quelli più alti, la fame ci comanda e fino a che c’è la fame siamo vivi.”
E l’essere vivi comprende tanta fragilità. Ne è una chiara ammissione il brano iniziale La mia debolezza (“Ma come hai fatto a sopportarmi io non trovo le parole come hai fatto a perdermi? […] Mostrami la mia debolezza e cos’è l’amore per te/Siamo qui a parlare come fosse la prima volta/E invece sai si perde, si perde e poi si vince”). Su note che sembrano date come le pennellate puntiniste, ascoltando ogni dettaglio ci si accorge che niente è come sembra. La voce di Chiara si muove tra registri diversi con maestria, ora sensuale e annoiata, ora acuta, ora smarrita. Talento naturale dietro un incedere più pop, pone domande su quello spirito di adattamento, a volte estremo, che spesso ci permette di andare avanti nonostante tutto: “sopravvivere al dolore come fossi un animale”. Era meglio quando non capivo niente chiude l’album con un titolo che già da solo è una dichiarazione di intenti, l’inconsapevolezza che protegge dal vero “che è brutto” come diceva Leopardi. Piano e violoncello accompagnano questa sensazione di raccoglimento, quando si parla a se stessi o a quei pochi che possono capirti.
La fame è un disco emozionante, in direzione ostinata e contraria rispetto all’ossessione dell’autosufficienza. Ci si scopre meravigliosamente imperfetti e bisognosi di ascolto e relazione.