Alejandro Escovedo The boxing mirror
2006 - Back Porch
Escovedo ha iniziato ora quella che pare una nuova fase della sua carriera, se non della sua vita, ed è tornato on the road, forte di un paio di nuovi lavori: “Room of songs”, registrazione di una performance con un quartetto d’archi, e soprattutto un nuovo album in studio, “The boxing mirror”, prodotto da John Cale.
L’impressione è che, dopo essersela vista brutta, Escovedo abbia deciso di percorrere tutte quelle strade che prima aveva seguito solo in parte realizzando così il suo ampio bagaglio musicale e anche qualche sogno rimasto nel cassetto. Se il disco con uno string quartet conferma la poliedricità di un musicista atipico nel suo essere americano, “The boxing mirror” deve essere stato un album fortemente voluto: per qualcuno che ha cominciato la propria carriera ispirandosi ai Velvet Underground e agli Stooges, farsi produrre da John Cale deve aver significato parecchio.
Questa raccolta però riesce solo in parte a proseguire sul sentiero tracciato dai dischi precedenti: come se si fosse lasciato prendere la mano, Escovedo mescola la carte offrendo un album privo di quella grave tensione malinconica che gli conosciamo.
Le canzoni sono più positive, e questo è un bene, ma purtroppo parecchie suonano scontate, pasticciate con pop, tastiere e arrangiamenti elettronici: per quanto sorretto da una band che vede anche John Dee Graham alla chitarra, il disco è sin troppo lavorato e salta da una traccia all’altra senza continuità. Anche togliendo i due brani più pop, “Dear head on the wall” e “Take your place”, si fatica a mettere a fuoco passando da ballate gravi a rock ruvidi e picchiati, da andamenti roots a passaggi infarciti di archi, keyboards e addirittura una batteria dal suono programmato. A ribadire l’incertezza generale “Take your place” appare anche come ghost-track in una versione rock che suona almeno più centrata della precedente.
In questa altalena di arrangiamenti, rischia di perdersi anche “Died a little today”, l’unico pezzo che riesce davvero a cogliere le intenzioni di Escovedo: qua archi e vocals nulla tolgono all’amarezza esistenziale del pezzo, anzi ne sottolineano l’ideale logorio senza scadere nell’enfasi.
Alla fine l’introspezione dei testi e le immagini dell’artwork che ritraggono un pugile ferito sembrano suggerire le difficoltà di un’atleta che si trova a dover dare una svolta alla propria vita senza sapere che direzione prendere. Purtroppo anche il disco soffre della stessa irrisolta confusione.