Alec Empire Futurist
2005 - Digital Hardcore Recordings
Partiamo proprio dal titolo, “Futurist”: possiamo leggerci un volto che guarda lontano nel tempo, nel futuro, teso alla ricerca di un sound che sarà forse quello più diffuso tra un decennio. Ancor più programmatica è la frase iniziale, urlata prima di “Kiss of Death” con rabbia e disincanto: “I’m talkin about the death of Rock’n’Roll”. A questo punto Alec Empire non lo tiene più nessuno: chitarre incazzate e fortissime, urla spesso indistinte nel microfono, sangue e morte, cattiveria e rabbia, rock’n’roll (ma non era morto?) che tende al punk più distruttivo con venature elettroniche a testimoniare un passato personale non ancora del tutto sepolto.
Un ritorno alle chitarre dunque, un ritorno da dove Empire era partito imparando a suonare la sei corde all’età di sette anni: molto è cambiato in quel bambino con in mano una chitarra più grande di lui e tutta questa violenza, questa rabbia, questo richiamo alle armi di “Night of Violence” e “Kiss of Death” deve trovare una risposta da qualche parte, nel suo passato. La risposta ce la dà forse lui stesso, riferendosi a suo nonno ucciso in un campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale: “Se cresci con quella coscienza, in una nazione che ha sbagliato così tanto, vedi i segni di pericolo molto precocemente e allora fai qualcosa. Penso che molte persone vivano in un mondo di sogni, pensando che il futuro potrebbe andare storto, mentre siamo già oltre”.
Un disco contro il pericolo dunque, una sferzata a quello che lentamente va in malora con la forza di un elettropunk tra i più forti mai sentiti: questa è la risposta di Empire.
Intenti a parte però, l’album risulta in buona parte davvero inascoltabile: quelle urla continue, quelle chitarre impazzite ma allo stesso tempo monotone, finiscono per annoiare o, peggio, per indisporre. Il futuro non migliora con la rabbia e la violenza, con dei suoni incazzati e indistinti lunghi quarantadue minuti.
Ad Alec Empire bisognerebbe ricordare che molto hanno invece fatto canzoni come “Blowin’ in the Wind”, prodotte non da un esercito di suoni bellicosi ma da un qualche ragazzo sbarbatello con una innocente chitarra acustica. E riguardo alla morte del rock, bisognerebbe presentargli un signore che fortunatamente fa ancora echeggiare il suo grido “Hey hey my my, rock’n’roll will never die”.