Il timbro inconfondibile dei fiati è la porta che ti apre un mondo in bianco e nero, le chitarre pompano come i pistoni di una Topolino amaranto, gli archi regalano armonie che ti coccolano (e il violino anche qualche stralcio di post-modernità). Paolo Conte è bello come le cose belle di una volta: la Singer dove cuciva la nonna, la Bianchi dello zio ben oliata, un'aranciata ai tavolini del bar sulla strada sterrata aspettando il Diavolo Rosso, una finta di Garrincha. Un autentico patrimonio nazionale che - tra cento anni, per carità - sarà impossibile sostituire.

Anche la tappa legnanese, la prima del suo ennesimo Live Tour che celebra i cinquant'anni di Azzurro, curiosamente ma in fondo giustamente espunta dalla scaletta, è stata l'ennesimo viaggio in un mondo che forse non è mai esistito ma che ognuno di noi è sicuro di aver vissuto o quanto meno di ricordare. In questo il collegamento a un altro Maestro e “Gran Provinciale” come Federico Fellini nasce spontaneo, per l'intreccio inestricabile tra realtà, sogni, ricordi, memoria collettiva, inconscio, fantasie. Eppure un aggancio storico pur c'è, ed è la prima metà del secolo scorso, che per Conte è il vero cuore del Novecento, quello a cui ha dedicato forse il suo ultimo disco al top della forma. E allora è probabile che il piccolo Cinema Teatro sotto la deliziosa Galleria Ina di una cittadina di provincia come Legnano, che proprio tra l'Ottocento e il Novecento industriale ha dato il meglio di sé ben più che nella tanto celebrata battaglia medievale, lo ispiri particolarmente. Ricambiato da un affetto e un entusiasmo persino inaspettati, assolutamente intergenerazionali (anche se è difficile scovare qualcuno sotto i quaranta...) e trasversali per gusti, idee politiche e “censo”.

Il concerto offre due set e un solo bis (Via con me in versione speedy) ed è scandito su una scaletta molto simile al suo Live In Caracalla e a molti degli ultimi concerti, con una ventina di pezzi che ormai assomigliano a micro-sinfonie cesellate al millimetro, senza sbavature. Conte siede al piano ma in diversi brani si limita a cantare, in piedi davanti al microfono, in una posa classica da frontman che però nel suo caso sembra quasi anomala. Lo proteggono due occhiali scuri, mentre le mani si agitano all'altezza della pancia e qualche volta dirigono l'orchestra con cenni improvvisi. La voce regge ancora molto bene nonostante ormai, anche lei, abbia passato gli ottanta. Alle spalle, l'orchestra, divisa grosso modo in quattro sezioni (ritmica, corde, fiati, archi), non perde un colpo nella perfezione della timbrica, nella precisione delle entrate, negli unisoni: un corpo unico che però quando serve sa scindersi in solismi interessanti, mai solipsistici ma sempre in linea – e non è un dettaglio da poco – con gli umori e le bizze del Maestro e il feeling che in quel momento sta dando al pezzo.

I brani sono tutti lì, li conosci a memoria e non ti tradiscono mai, come il servizio buono che tiri fuori per gli amici a cena o i profumi inconfondibili delle “vecchie lavande” nascoste negli armadi delle nonne. Se c'è un esempio di come si possa fare l'amore con una propria canzone questo è Alle prese con una verde milonga, forse la summa più compiuta dell'arte contiana, che il nostro si coccola tra ritmi latini, jazz e francesismi. Sotto le stelle del jazz elimina le barriere, tira dentro noi e lui, e ci sentiamo orgogliosi, dopo tanti anni, di condividere la stessa inguaribile passione. Messico e nuvole chiude il primo set con i caratteristici leggeri controtempi fra il ritmo e il cantato, richiamando Jannacci. Chi cerca l'apice del romanticismo, altro topos chiave della poetica contiana, un romanticismo ispido e grezzo come i suoi baffi, deve aspettare una ventina di minuti e Gioco d'azzardo (“Adesso è tardi e ti dico soltanto/che si trattava d'amore e non sai quanto”). Poi due classici inossidabili. Max ti stritola nelle spire delle sue due melodie che si incrociano ad libitum, e la musica potrebbe proseguire all'infinito mentre sei ancora lì a chiederti chi mai sia questo Max, a cavallo tra il Padreterno e l'amico un po' sempliciotto che tutti abbiamo avuto. Diavolo Rosso è invece una cavalcata infinita che non smette mai di estasiarti, sostenuta dalle braccia instancabili e dal cervello metronomico dei tre chitarristi. Dieci minuti e più di assoli: la band ha lo spazio per sfogarsi e se lo merita tutto.

L'ovazione finale è scontata, calorosa, meritata. Lui la “taglia” con un ultimo gesto geniale, passandosi la mano sotto il collo. Facciamola finita, è tempo per un bagno caldo....