Jazz • Approfondimenti

Charlie Parker

La maschera di Parker

04/07/2020

Articolo di Franco Bergoglio

Prima di indossare la maschera...

Quando, nel 1998, ho ultimato la prima versione di questo saggio, poi confluito nel libro Jazz! Appunti e note del secolo breve (Costa&Nolan, 2008), non erano usciti né Fulmini a Kansas City. L'ascesa di Charlie Parker (Minimum Fax 2014) di Stanley Crouch, né il lavoro di Gianfranco Salvatore, Charlie Parker. «Bird» e il mito afroamericano del volo (Stampa Alternativa 2005). Avevo pescato in un remainder La leggenda di Charlie Parker di Robert Reisner (Mondadori, 1980), considerandola una mera agiografia del genio maudit e santo peccatore (e lo è, ma proprio per questo sarebbe servita una mislettura alla Harold Bloom, un attraversamento infedele del testo che sapesse comprendere i segni Parkeriani dove il ricordo mitizzato di musicisti, amici, mogli, spacciatori, impresari, appassionati, artisti, tassisti newyorkesi e nullafacenti li aveva confinati). I miei vagabondaggi di carta mi hanno spesso fatto incontrare a annotare con la matita (ben temperata) ulteriori passaggi che illuminavano la metonimia della “maschera di Parker”, quel velo che copre l’immagine del sassofonista nato nel 1920, cento anni fa. La marmorea lirica We wear the mask, scritta da Paul Laurence Dunbar nel 1896, si apre così:

Noi portiamo la maschera che sghignazza e mente,

nasconde le guance e cela gli occhi;

questo è il prezzo che paghiamo alla scaltrezza umana:

sorridiamo col cuore straziato e sanguinante,
e declamiamo con innumerevoli astuzie.
Versi che raccontano la pratica del Signifyin’ propria della cultura nera e potrebbero spiegare alcune delle interpolazioni di frammenti musicali eterogenei che affiorano nei soli di Parker (dalla sigla di Popeye a temi di Stravinskij). La poesia si chiude con una profezia dal sapore biblico sul destino collettivo dei neri e, volendo, di quello individuale di Parker.
Cantiamo ma, ahimè, camminiamo su un terreno argilloso e lungo miglia e miglia.

Lasciate allora che il mondo diversamente s’illuda, noi portiamo la maschera.

L’anno successivo, il 1897, usciva il romanzo Il negro del Narciso di Joseph Conrad. Stesso tema della maschera, qui filtrato dalla “mentalità bianca” dello scrittore:

Teneva il capo alto nel bagliore delle lanterne, un capo vigorosamente modellato in ombre scavate e linee splendenti, un capo poderoso, deforme, con un volto piatto, segnato dalla sofferenza, un volto patetico e brutale: la tragica misteriosa repulsiva maschera dell’anima nera.
Oggi sarei forse meno netto nell’interpretazione della maschera parkeriana: le ambivalenze del personaggio necessitano di una visione altrettanto ambigua. Alla vita tormentata di Charlie “Bird” Parker si adatta quanto ha scritto della poesia Thomas Stearns Eliot ne Il bosco sacro:

La poesia non è un libero sfogo di sentimenti ma un’evasione da essi; non è espressione della personalità ma un’evasione dalla personalità.

Tornando al saggio, i difetti elencati in apertura sono diversi; però rileggendo il testo il giudizio si è sfumato. Mi sono accorto che il volo parkeriano che avevo compiuto a 25 anni e ritoccato a 35 (l’età in cui è morto Parker e quella in cui lo ha seguito il suo discepolo Dean Benedetti), era un qualcosa che ora, trascorso un altro decennio, non sarei in grado di ripetere. La creatività vive le proprie stagioni: è una febbre che non brucia alla stessa temperatura a trenta, cinquanta o settant’anni. Questo scritto è viziato di intemperanze giovanili e superato da studi successivi. Oggi non lo saprei comunque scrivere e preferisco -con pochi ritocchi- far circolare questa visione di Parker azzardata ma personale. Parafrasando Cortázar che parafrasa Parker: questo l’ho scritto domani.

La maschera di Parker

rispettabilità borghese o vagabondaggio nel jazz-dharma?

Ciascun uomo percepisce sempre la propria
dualità, un americano, un nero; due anime,
due pensieri, due sforzi non riconciliati; due
ideali in lotta dentro un unico corpo scuro;
solo la sua ostinata forza lo trattiene dall’esserne
ridotti in pezzi.
William E.B. DuBois
The Souls of Black Folk

Suonare è vivere e viceversa
Suonare per vivere e viceversa
Suonare dal vivo è un vizio perverso
Charlie Parker
Estratto di una poesia

Credo sia stata una ragazza bohémien / a portarmi in Barrow Street / a una di quelle / feste in costume/ dove nessuno ha i piedi / per terra. So che erano mesi / dopo che Bird era stato bandito / da Birdland. Mesi dopo / che ebbe bevuto iodio, / cercando di divorare cento / rose nere. Ci vivevano anche / Ted Joans & Basheer, / dormendo in tre in un letto / per tenersi caldi. Una donna spolverava / una maschera impolverata sul viso di Bird.
Yusef Komunyakaa, Testimony

L’undicesima stanza di Testimony, il poemetto di Yusef Komunyakaa, evoca celebri momenti della storia del Charlie “Bird” Parker personaggio pubblico, adorato dalla bohème degli anni Cinquanta, più beat dei beat, nero e per questo doppiamente battuto dal conformismo dell’America bianca. Parker è stato un artista ribelle per necessità, affamato di rispetto per sé e la propria musica. Purtroppo spesso ci viene presentato un Parker stereotipato, a una sola dimensione. Per molti anni questo musicista ha attirato come orsi sul miele tanti intellettuali che si sono affannati nel tentativo di svelarne la natura autentica – togliergli la maschera. Bird rappresenta il soggetto ideale se si vogliono scrivere infinite variazioni sul tema dell’arte tragica del Novecento, ben visibile dietro il volto impenetrabile di uno dei suoi miti più fulgidi, il sassofonista tutto genio e sregolatezza. Con un calembour potremmo chiamarla la maledizione dell’arte maledetta, quella che per perseguire il suo risultato non lascia quasi spazi all’ambiguità, un aspetto ben presente nella poesia di Komunyakaa.

«Charlie era in due luoghi a un tempo/sempre in lotta con se stesso nel buio» (Komunyakaa, sesta stanza). Il poeta, mentre sfiora il mistero del tempo, tanto legato al mito parkeriano, rivela le due nature in lotta tra loro: quella dell’uomo nel voler vivere una vita per l’arte e quella della dissoluzione totale di corpo e personalità, sapendo che sopra aleggia, come collante, una bruciante genialità musicale. Una dualità inscindibile dai destini dell’uomo afroamericano, come presagì W.E.B. DuBois, uno tra i primi grandi intellettuali di colore, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Quando DuBois scrive dei: «due sforzi non riconciliati; due ideali in lotta dentro un unico corpo scuro», preconizza di decenni il Paker di Komunyakaa.

Kenneth Rexroth, scrittore vicino ai beat come a Parker, forse ha indovinato la metafora poetica più indicata per la condizione esistenziale e artistica del sassofonista, affratellandolo a un altro celebre maudit, il poeta Dylan Thomas, paragonando i due creativi a “Titani crollanti” posti a guardia di un inferno privo di poesia, dove lottano e implodono in una “conflagrazione personale accelerata” per imporre al mondo la loro arte.

«Come colonne d’Ercole, come due Titani crollanti a guardia di uno dei cerchi danteschi, si ergono due grandi delinquenti giovanili morti: gli eroi della generazione del dopoguerra, il grande sassofonista Charlie Parker e Dylan Thomas. Se il termine deliberato ha un qualche significato, certo entrambi hanno deliberatamente distrutto se stessi. Entrambi furono sopraffatti dall’orrore per il mondo nel quale si trovavano, perché alla fine non poterono più a lungo sopraffare quel mondo con le armi della poesia pura. Entrambi erano miei amici. Vivendo a San Francisco li vedevo abbastanza raramente da osservarli con una prospettiva che non era distorta da esasperazioni o stanchezze. Passavano gli anni, e io ogni volta li vedevo nella luce di una conflagrazione personale accelerata. Entrambi erano sopraffatti dall’orrido mondo nel quale si trovavano catapultati perché alla fine non riuscivano più a sopraffare quel mondo con l’arma della poesia pura» (Rexroth, Disengagement: the Art of the Beat Generation, 1957).

Una battaglia impari, contro un mondo troppo forte per le loro forze, che ha finito con il prevalere e distruggerli entrambi.

Procedendo nel ragionamento, Rexroth introduce un tagliente dubbio sulla natura dell’arte parkeriana; con una osservazione che scaturisce dalla triangolazione compiuta affiancando al poeta Dylan Thomas il pittore Jackson Pollock.

«Contrariamente al pensiero comune, non c’è nulla di pazzo o frenetico in Parker, sia dal punto di vista musicale che emozionale. Le sue melodie sinuose sono una sorta di trascendenza naïve di tutte le esperienze. Dal punto di vista emozionale non assomiglia a Berlioz o a Wagner, ci ricorda Mozart. Questo è vero anche per un pittore come Jackson Pollock. Può avere avuto dei comportamenti eccentrici, ma i suoi dipinti sono impassibili come tessere persiane».

Rexroth recupera un secondo aspetto dell’arte parkeriana: nonostante il bebop sembrasse indubbiamente rivoluzionario agli ascoltatori che in quel periodo lo incontravano per la prima volta allo stadio nascente, era percepito anche come ostico, duro; appariva “strano”, termine questo che non viene usato a caso, ma compare spesso nelle cronache del tempo. Le sue innovazioni si basavano su una ferrea architettura, costruita insieme a Dizzy Gillespie e a un ristretto manipolo di adepti della setta, frutto di esercizio e ricerca. La loro visionaria concezione artistica era solidamente fondata su innovazioni tecniche che circolavano nel piccolo gruppo di lavoro. Quella del bebop di Parker è una costruzione “impassibile”, con una logica ferrea nella sua libertà espressiva. Parker, diversamente da Thelonious Monk, che abita un mondo espressivo appartato, crea un linguaggio che sottopone al vaglio esterno senza mediazioni, direttamente dal palco al pubblico. Un lessico che da allora tutti i musicisti jazz hanno fatto proprio, magari per criticarlo o trascenderlo, ma che rappresenta un passaggio imprescindibile, un banco di prova, un esperanto universale. Accostarsi all’arte di Monk può a volte suscitare il dubbio di essere penetrati di nascosto nel suo spazio, di essere spioni più che ascoltatori, mentre quella di Parker non apre a un foro interiore, ma sprigiona piuttosto un vocabolario estroverso, un imperioso grido di battaglia proiettato verso il mondo. Torna per l’ultima volta nell’analisi di Rexroth il confronto fra le tre personalità artistiche, questa volta per evidenziarne le differenze: «Thomas certamente voleva parlare alla gente della rovina e del disordine del mondo. Parker e Pollock volevano invece sostituire il lavoro artistico al mondo». Qualcuno ha anche proposto delle analogie tra Pollock e William Gaddis, il primo scrittore ad aver prodotto un capolavoro compiuto inquadrabile come postmoderno. Gaddis nel 1955, anno della morte di Parker, pubblica The RecognitionsLe perizie: letteratura che plasma un brulicante libro-mondo centrato sul ambiguo intreccio tra verità e falsità (nell’arte, nella vita). Un romanzo frenetico, debordante, ricco di variazioni sul tema e interpolazioni che si chiude con una musica, quella di un organo, il quale vibrando fa crollare la chiesa dove è ospitato, portando con sé nella rovina il personaggio che lo sta suonando. Gaddis non ignora il jazz e nel pullulare di dialoghi, nell’intrico di trame e personaggi, trova spazio la musica: «Be’, ho un amico che era un fisico, si è convertito. Ora scrive canzoni. Pretende di essere un musicista serio. Be-bop, se per te quella è musica!» (Gaddis, Le perizie). La gestazione dello scritto di Gaddis – che inizia nel 1948 - copre gli anni di esplosione del bebop e le sue pagine in qualche maniera ne risuonano. Questa pista di indagine è inedita, ma ci porterebbe lontano da Bird, che è senza tentennamenti un esponente del moderno, più che del postmoderno, come vedremo meglio a breve.

Diverso il destino del paragone tra pittura astratta in stile drip di Jackson Pollock e il lavoro di Parker: questo è moneta comune, specialmente tra i critici d’arte quando vogliono ammantare le loro considerazioni di una allure esotica al loro ambito d’azione.

Pollock è stato spesso visto come una sorta di “Parker bianco”, sostanzialmente perché i due artisti sono accomunati da vite personali disperate, da una morte prematura e da una rapida canonizzazione. Come nota il critico inglese David Sylvester le somiglianze sono più profonde: lavorano nello stesso periodo, condividono la stessa città, New York, e possono essere definiti entrambi come eroi culturali di un’epoca. Soprattutto ci sono affinità nel loro linguaggio: «rilassate e lunghe linee curve e altre nervosamente interrotte, chiaroscuri e cascate iridescenti» (Sylvester, The Grin without the Cat, 1997).

Charlie Parker è un artista maledetto nella vita ma certamente non lo è nell’arte.

Vorrebbe ignorare il mondo, si sente braccato dalla società, non riconosciuto per i suoi meriti, anela a un buen retiro per dedicarsi all’arte pura, ma non è un iconoclasta. Si qualifica piuttosto come un costruttore di linguaggi, un architetto del nuovo che mai agisce come un mero demolitore del vecchio. Gli si adatta un pensiero formulato dal suo idolo, Igor Stravinskij: «mi si è voluto rivoluzionario mio malgrado» (in Poetica della musica, 1942).

Parker non lavora sulla pars destruens, ama i grandi solisti della generazione precedente, come Lester Young, apprezza il contemporaneo r&b di Louis Jordan, quello in voga presso i giovani afroamericani che lo fanno girare senza sosta nei jukebox. Trascende i limiti, le barriere, i generi. Quando è in forma il suo solismo cristallino si libra ad alta quota come un uccello (quello del suo soprannome Bird) e lascia a terra tutti gli altri, ammirando dall’alto i contesti musicali nei quali si inserisce. «Suonava in un altro mondo», ha scritto Elliott Grennard nel suo racconto Sparrow’s Last Jump (1947), pensando al Parker di Lover Man. Il fascino del genio maledetto porta con sé una subdola, seducente forza: la tesi di un Parker artista benedetto dall’arte -più che dannato- è stata controcorrente per molti anni dopo la morte e solo recentemente, con l’affievolirsi della carica mitologica insita nella sua vita dissoluta si sta aprendo il varco a interpretazioni meno ammantate di leggenda e la maledizione sta cedendo il posto a analisi pacate, limitate alla sola musica, come quella condotta da Carl Woideck (Charlie Parker. Vita e musica, Edt, 2009).

Nell’antologia critica di Martin Williams The Jazz Tradition (1970), il capitolo dedicato a Parker, Il fardello dell’innovazione, inizia riassumendo un problema che dai tempi in cui il pezzo è stato scritto negli anni Sessanta si ripropone costantemente uguale a se stesso. «E’ ancora possibile discutere di Bix Beiderbecke come musicista, sebbene sia morto da oltre trent’anni. Quando Charlie Parker era morto da meno di un anno molti parlavano ancora di lui, ma diventava sempre più raro sentire qualcuno che discutesse la sua musica. Si iniziava a parlare di lui come di un dio, forse perché così si evitava il problema di riflettere sul suo modo di suonare o sulla sua vita». Williams, nel suo breve lavoro, ci chiede di spogliare Parker della mitologia e tenta con stile compassato di seguirlo su questi presupposti. La maledizione di un Parker maledetto, che impone a Williams e altri di affrontare la questione, anche soltanto per negarla o eluderla, è radicata nella storia del musicista e dell’uomo così profondamente da sembrare fusa in un tutt’uno inestricabile.

Parker è diventato un’icona come artista maudit neanche trentenne, ben prima che la sua parabola creativa si concludesse. Proprio perché non era un iconoclasta ma un creatore odiò profondamente la drammatica incisione di Lover Man, quella che negli anni sarebbe stata rimasticata, romanzata, distorta da decine di scrittori, giornalisti, testimoni in studio o semplici orecchianti. Parker -come è noto- non l’aveva approvata e non avrebbe voluto che il suo mito venisse costruito sugli errori. Il distacco tra l’opera consegnata alla libera interpretazione del mondo esterno e il suo creatore confinato nel ruolo di spettatore che –inascoltato- la rinnega, non è certo un unicum nella storia dell’arte, ma in Parker assume risvolti tragici perché noi percepiamo chiaramente il grido di dolore della sua personalità violentata dal sistema, di un individuo conscio della caratura artistica posseduta in un mondo dove l’affermazione dei diritti dell’artista nero è lontana dalla piena realizzazione.

La biografia degli ultimi anni della sua vita racconta il girovagare stanco di un’ombra che sta consumando i giorni in attesa di conformarsi al proprio mito e di mettere la parola fine a una tragedia sempre presentita e forse in qualche misura anche cercata. Le profezie sulla propria fine, pronunciate a più riprese dallo stesso Parker -siano esse vere o frutto di qualche racconto spurio- costituiscono un velo di Maya, restituiscono un Parker di fantasia che non esiste, un feticcio dei “desideri rappresentativi” proiettati su di lui da un numero incalcolabile di persone.

Se un artista “classico” è quello che non necessita di essere più difeso dagli attacchi dei detrattori, Parker è un indiscusso monumento del jazz, per quanto la sua complessa parabola creativa si presti alle speculazioni più diverse. Come scrive Harold Bloom per i giganti della letteratura universale (La saggezza dei libri, Garzanti, 2004, p 122) «…il Don Chisciotte –come le migliori opere di Shakespeare- è in grado di offrire sostegno a qualunque teoria si voglia costruire su di esso, né meglio né peggio di quanto accadrebbe con qualunque altra». Proviamo a immaginare un Parker nei panni di Don Chisciotte o come un character di qualche dramma shakespeariano. Scopriamo che si adattano. Teoria o meno, il personaggio e la sua musica sono sempre in grado di attivare qualche lettura “altra”. La figura di Bird non è più recuperabile a una dimensione storica, la trasfigurazione mitologica, partita immediatamente, con i colleghi, gli amici, i poeti beat e la intellighenzia underground newyorkese ha oscurato irrimediabilmente la realtà, creandone una parallela, dove un Parker icona esiste autonomamente e si confronta con l’essere in carne ossa e sassofono, che per complicare ulteriormente le cose, è stato un personaggio alienato; altro da sé, in senso marxiano. Dinanzi ai nostri occhi va in scena la raffigurazione di una lotta tra troppi “doppi” dello stesso personaggio. L’aneddotica si è nutrita alla fonte dell’anticonformismo selvaggio spinta dal romanticismo jazz mentre parallelamente un certo moralismo benpensante ha rimestato nel binomio creazione-morte, indissolubile alla sua arte come nella vita.

L’arte che consuma l’artista è la cifra che segna la parabola epica della storia di Parker. La sua essenza sembra perdersi tra le pericolose suggestioni -valore simbolico, influenza sui costumi- che il personaggio offre a piene mani. Si possono individuare almeno tre emanazioni della sua figura al di là della pacifica importanza dovutagli come demiurgo del bebop. Troviamo un Parker spirito-guida della comunità nera, uno campione della controcultura bianca americana e in ultimo il mito mondiale tra/sfigurato.

Eroe di carta in romanzi, racconti, poesie e nei fumetti, eroe di celluloide e di teatro. Un Parker simbolo pittorico o scultoreo. Il Parker guida della sua comunità era un primus inter pares, perché divenne immediatamente simbolo del nascente bebop e modello di vita per i jazzisti del suo giro. Dal suo sconvolgente stile al sassofono contralto emanava una carica di vitalità creatrice a cui gli iniziati non potevano sfuggire. Nel suo modo di suonare era esplicita una rivoluzione musicale che comunque manteneva saldi i legami con il grande fiume della musica nera e ne riscopriva una selvaggia purezza, dopo gli anni delle grandi orchestre, del successo commerciale nell’era swing. Il sax di Parker trasmetteva insieme alle sue veloci sequenze di note un messaggio extramusicale che investiva il pubblico, i colleghi musicisti, i poeti hipster in evoluzione verso la beat generation. «Il suo sassofono urlava amore, rabbia e potere nero», ricorda il suo produttore - e biografo- Ross Russell. Era invece implicita, nel suo modo di vita, la reazione al “sistema” bianco, il suo andare contro le regole diventava leggendario sia per i giovani del ghetto sia per gli intellettuali radicali; le sue pazzie, gli atteggiamenti contraddittori, erano delle sfide nei confronti della rispettabilità borghese che di questi valori si faceva promotore. Anche il suo rapporto con il denaro e con il successo correva su binari controversi.

Ancora Russell scrive: «A metà degli anni Quaranta non c’erano Martin Luther King, Malcolm X, Eldridge Cleaver, Angela Davis, Shirley Crisholm. In un certo senso, Charlie fu un precursore di quei militanti politicizzati. Lui era del tutto apolitico: in tutta la sua vita non votò mai» (Russell, Bird, Charlie Parker, Sperling & Kupfer, 1988, p. 171). Per Parker si deve parlare di una ribellione istintiva; il piano su cui opera è artistico ed è in quel campo che avviene il confronto con la cultura bianca, soffocante e pervasiva, ma anche stimolante. Vedere altro è impossibile perché altro, come rileva Russell, non c’è: mancano ancora, nei suoi anni di attività, le personalità in grado di dare un corpo ai moti di ribellione. Il sassofono di Parker suona la musica del risveglio della comunità, ma sarà necessario un ulteriore decennio perché emergano consistenti fermenti politici. E’ del 1955 il boicottaggio di Montgomery, il punto di svolta che inaugurò la stagione del movimento per i diritti civili e rivelò la figura carismatica di Martin Luther King; nel mese di marzo di quell’anno, come abbiamo già ricordato, Parker muore.

Questi non vide i primi segnali concreti di una rivolta finalmente condotta su basi solide, in prepotente ascesa e in conseguenza il suo atteggiamento su quei temi rimase sempre venato di pessimismo. Il pianista di colore Hampton Hawes, suo amico e discepolo, rievoca un Parker vicino a quello di Russell. «Bird fu la prima persona a parlarmi dei diritti civili, del potere nero, idee che dovevano affermarsi venti anni più tardi nei libri di Malcolm X ed Eldridge Cleaver. L’immagine che si era fatto dell’America era così disperata che egli visse e morì perché non vedeva alcuna via d’uscita per l’uomo di colore. E potevate sentirlo nella sua musica esprimere tutto il suo furore, come la sua tenerezza, scagliati in faccia al mondo» (in Walter Mauro, Jazz e universo negro, Rizzoli, 1972, p. 157).

Emerge qui un Parker lucido, consapevole della sua condizione di emarginato come artista e come uomo di colore. Il fatto che non avesse mai votato, non è, come vorrebbe Russell, un indicatore della sua apoliticità. La sua visione del mondo era nella musica e nei sui soli rivoluzionari che riuscivano a trasmettere il proprio messaggio in modo inequivocabile. Il voto poi non è mai stata una prerogativa dei jazzisti, il loro spirito vagamente anarchico li ha spesso portati lontano dalle istituzioni, figuriamoci in anni in cui esercitare questo diritto non era certamente una pratica facile per l’elettorato nero nell’America razzista. L’associazione tra Parker e i leader neri che emerge nelle testimonianze riportate non è casuale, rivela una consonanza spirituale che si gioca su un altro terreno. D’altro canto non è ancora arrivato per il jazz il momento dell’engagement ed altrettanto lontano quello del riconoscimento pubblico da parte dello status quo. Anche Parker avrebbe potuto provare l’ebbrezza di calpestare il prato verde della Casa Bianca, come è capitato ad altri eroi culturali della black music, Duke Ellington in testa; ma per poterlo fare sarebbe dovuto invecchiare. Un fatto del genere si sarebbe verificato non prima degli anni Sessanta, quando la sua figura di eroe culturale avrebbe assunto il ruolo di emblema del genio nero in mille pubblicazioni che, raccontando il risveglio del black power, ne andavano a cercare miti e modelli a ritroso. «Confessiamolo, che con uno strumento ad ancia si potesse far tanto nessuno l’avrebbe creduto», scrive Giulio Ricchezza in Il problema negro in America (Edizioni di Crémille, 1971), uno dei mille esempi di utilizzo della figura di Parker in un testo minore dedicato a quello che negli anni Sessanta era l’oggetto di decine di saggi sul tema della “questione negra”, come la si etichettava allora. Tutte costruzioni a posteriori, semplicistiche, dettate da una rimasticatura di seconda mano della pubblicistica nera che ignoravano o riducevano le analisi storiche a semplice osservazione di fenomeni complessi.

Scrive Russell: «Charlie Parker fu il primo nero arrabbiato della musica. E dato che era più avanti dei suoi tempi, dovette soffrire solitudine e frustrazione. La pratica inutilità dei colpi da lui sferrati al sistema lo incoraggiò a darsi sempre più all’eroina e all’alcool, ingigantendo così la sua solitudine e la sua corsa alla autodistruzione» (Russell, 1988, p. 171). Il raziocinio con cui Parker esprime le proprie idee musicali e civili contrasta in modo irrisolvibile con l’incapacità o la non-volontà di trarre delle logiche conclusioni nell’interpretazione del mondo circostante. Russell, come capita in altre parti della sua biografia, si mostra eccessivamente schematico nelle analisi: è vero che Parker era più avanti dei suoi tempi, ma ne era anche drammaticamente fuori: la sua personalità manifestò con il passare degli anni degli atteggiamenti depressivi e psicotici che lo allontanavano dalla realtà e l’abuso di droghe acuì questa sua assenza dal mondo.

Le stesse parole del musicista rivelano come negli ultimi anni della sua vita si fosse reso conto di essere stato superato da altre concezioni musicali, alle quali aveva dato il via ma che ora non era più in grado di padroneggiare. Se da un lato ritroviamo la solitudine, una caratteristica dei bopper che si erano posti fuori dal sistema e che contestavano la musica commerciale e spogliata delle sue caratteristiche originali, se consideriamo “l’isolamento di gruppo”, come un male necessario per questi musicisti indispensabile a creare la loro arte nuova, che trasforma il jazz da merce di massa a culto per una ristretta elite di appassionati, è d’altro canto impossibile ignorare il fenomeno droga. Il Parker tossicodipendente è uno di quegli stereotipi di cui sono ampiamente imbevute le storie del jazz; un destino questo che lo accomuna a Billie Holiday. La droga era per i giovani della beat generation un rito esistenziale, un ausilio per sviluppare nuovi piani comunicativi, riscoprire e liberare l’io, superare la quotidianità, il vuoto del dopoguerra, provocare il perbenismo borghese. William Burroughs iniziava a parlare in quegli anni di “droghe che espandono la coscienza” e offrono una chiave diversa per sviluppare il processo creativo, un tema che sarà poi al centro della controcultura degli anni Sessanta, quando verrà ampliato alle sostanze allucinogene con Ken Kesey, Timothy Leary e tanti altri esponenti della psichedelia californiana. Negli anni Cinquanta i beat usano le droghe per migliorare le percezioni estetiche. Allen Ginsberg spiega di aver compreso in modo nuovo la struttura di certi brani di jazz e di musica classica sotto l’effetto della marijuana, come di aver compreso meglio le opere di Paul Klee. Non si tratta di allucinazioni, ma di una sorta di consapevolezza che la droga catalizza grazie al proprio potere di modificare le percezioni. Nulla di troppo diverso da quello che avevano sempre fatto con la marijuana i jazzisti delle generazioni precedenti, come è ben documentato da Louis Armstrong in avanti. Si postula il potere creativo (e ricreativo) delle droghe, la cultura underground inizia a operare una netta distinzione tra le droghe leggere e quelle cosiddette “dure”. Alle motivazioni mediche sulla differenza di pericolosità che intercorre tra le due categorie si contrappone la ragione sociale-comunitaria, che prende in esame il diverso significato insito nell’uso delle droghe. Hashish e marijuana avvicinano le persone, sciolgono i freni che impediscono i contatti e aumentano il senso di gruppo. L’eroina e altre sostanze simili, in genere, hanno una funzione e un significato opposti. Gli effetti principali sono quelli di intorpidire, allontanare le persone tra loro, rinchiuderle nel proprio io, di annientarle socialmente. L’eroinomane erige una barriera tra sé e gli altri, vive in un sottobosco urbano assieme ai suoi simili e a contatto con gli spacciatori. Il jazz e la droga si mescolano alle estasi mistiche degli anarchici intellettuali della beat generation, Burroughs, Gregory Corso, Ginsberg. Charlie Parker ne era insieme ritratto e modello: con la sua solitudine, i rapporti difficili con le donne e i colleghi, il morboso legame con alcuni spacciatori, l’essenza individualista dell’uomo solitario con il suo sassofono e i suoi pensieri, che compone su un taxi e suonando vola così alto e così veloce da lasciare a terra gli altri musicisti. E’ lui il pilota del Constellation, l’aereo più veloce del mondo nel 1948, quando il nostro decide di intitolargli un brano appena inciso. E’ lui che ti fa decollare nella stratosfera. Questo è il ruolo accidentale del Parker-guida: l’iniziatore alle droghe pesanti di moltissimi artisti della comunità del jazz. Un eroe involontario quando assoluto per un intero movimento, destinato a falcidiare molte esistenze sulla strada del bebop business.

L’eroina è penetrata nel mondo del jazz e ha mietuto numerosissime vite tra i talenti più promettenti, in particolare negli anni Cinquanta. Lo stesso problema si era verificato un ventennio prima, quando era stato l’alcolismo la piaga sociale dominante tra gli artisti. L’eroina rappresentava una novità nei primi anni Quaranta e Parker divenne una sorta di testimonial involontario per questa nuova droga. «Per suonare come Bird devi fare come Bird»; questo era il consiglio che si scambiavano tra loro i musicisti più giovani nel disperato tentativo di avvicinare la sua grandezza artistica (Russell, p. 173). Charlie Parker suonava come nessun altro nei primi anni Quaranta e il suo abuso di sostanze era di dominio pubblico nell’ambiente. Lui stesso si rese presto conto di quanti danni stava producendo sui giovani musicisti questa pericolosa imitazione. A più riprese dichiarò che l’eroina non aiutava l’atto creativo e che lui stesso suonava meglio quando non era sotto l’effetto di droghe. Le sue parole però non avevano la stessa forza di persuasione della musica che produceva. Lover Man, forse il brano più tragico mai inciso durante l’intera storia del jazz, doveva in gran parte il proprio fascino alle note ultraterrene prodotte dal sax di Parker, incapace di suonare correttamente, soffocato dall’effetto degli stupefacenti. Lover Man venne immediatamente considerata dai critici e dal pubblico un capolavoro visionario, destinato all’immortalità. Il sassofonista, invece, la giudicò sempre un’onta e non perdonò mai i discografici che avevano deciso di pubblicarla, mettendo in piazza le sue sofferenze private. Nonostante invitasse ripetutamente i colleghi a smettere l’uso della droga e, privatamente, si rendesse conto di quanti danni questa stava producendo sul suo fisico e sulle capacità creative, non riuscì mai ad abbandonarla, né tentò di farlo seriamente: Russell fa risalire questa incapacità alla sua concezione negativa della vita, al pessimismo di fondo che lo attanagliava. Red Rodney, il trombettista bianco che suonò e visse a lungo con lui, incominciò a usare stupefacenti durante la militanza nel suo gruppo. Rodney proveniva da una famiglia ebrea piccolo-borghese, in un contesto che provava un sacro orrore per le droghe e questo fattore lo aveva tenuto fino a quel momento lontano da ogni pericolo. Ma il Parker degli ultimi anni si portava dietro un presagio di morte, una carica autodistruttiva che travalicava la propria persona. Rodney venne arrestato e condannato più volte al carcere; solo dopo un lungo calvario personale riuscì a uscirne. Per un certo periodo dovette anche procurare la sostanza a Parker, quando questi stava male. Parker sentì fino alla morte la responsabilità verso i tanti giovani artisti dalla personalità debole, come Rodney, che per colpa sua videro bruciate le loro vite. Rodney pagò la sua devozione al culto di Bird con venti anni di alti e bassi, tra arresti per truffe o per droga. Il punto più basso lo toccò quando dovette sopportare lunghe e costose cure di impianto ai denti, postumi del pestaggio subìto alla bocca per mano di da un poliziotto. (L’aneddoto, raccontato in prima persona, ne ricorda uno analogo riferito a Chet Baker). Questo gli consentì di tornare ad avere una imboccatura buona per la tromba. Tornato solo nel 1973 sulle scene jazz dopo un periodo oscuro a Las Vegas come musicista di fila, incise il suo primo disco dal significativo titolo Bird Lives! (Muse 1974)1, trascorrendo gli ultimi anni della carriera -in particolare dopo il successo del personaggio che lo impersona nel film Bird di Clint Eastwood- come una sorta di testimone vivente di Parker. Un mito che si alimenta negli anni. Il personaggio tragico incarnato da Bird rappresenta uno dei miti fondanti della cultura beat e l’influenza alimenta alle radici l’estetica letteraria di tanti narratori americani: Gregory Corso parla di: «uso di misture che contengono spontaneità, prosodia bop, immagini surreal-reali, salti, ritmi scanditi, scansioni cool, vocali lungo-rapide, versi lunghi lunghi, e per contenuto principale, soul» (in Waldman, The Beat Book: poesie e prose della beat generation1996, p. XIV).

Tre termini (bop, cool, soul) utilizzati in questo passo programmatico sulle caratteristiche stilistiche della narrativa beat sono di derivazione jazzistica, si rifanno al gergo dei neri e si riferiscono ad altrettanti stili musicali, venendo utilizzati per evocare le atmosfere che questi sanno produrre. La parola “soul” è centrale nella controcultura afroamericana: indica tutte le forme di espressione e di sentimenti del nero. La ricerca stilistica nella poesia e nella prosa, non solo di Corso, ma anche di Kerouac, Ginsberg e altri beat, si fonda sull’appropriazione del patrimonio delle avanguardie europee del primo Novecento (da Rimbaud al dadaismo) e sull’incorporazione del jazz, una forma artistica autenticamente americana che sta attraversando dalla metà degli anni Quaranta una feconda stagione creativa. Sull’importanza del jazz per la beat generation leggiamo la testimonianza diretta e temporalmente vicina al fenomeno (1959-1960) di Fernanda Pivano in America rossa e nera. Ecco un passaggio sulla “funzione” del jazz per questi intellettuali: «Un incontro serio, dal quale ci si aspetti un autentico scambio di idee, incomincia con l’audizione di uno dei loro dischi preferiti, per lo più di jazz. Se la musica è abbastanza intensa ed è ascoltata con abbastanza intensità, serve a sciogliere la mente dalle sovrastrutture della vita convenzionale che, volere o no, incombono e premono da ogni lato anche sui più liberi e più svincolati da essa» ( Pivano, Il Formichiere,1964, p. 358). Quando la puntina degli impianti stereofonici nei cenacoli beat scorre sulla musica incisa da Parker, il suo sassofono apparentemente senza limiti, la freschezza e l’intensità delle sue idee esplodono letteralmente nelle menti dei poeti e degli scrittori radunati, mostrando loro le possibilità espressive del jazz moderno, di un mondo nuovo. Parker diventa il profeta e il santo cantato in tanti poemi beat.

1 Alcune delle informazioni biografiche qui riportate provengono dalle liner notes di Howard Mandel a questo disco.

Scrive Luca Fontana nell’introduzione a Urlo pubblicata dal Saggiatore: «Prosodia Bop è un’espressione spesso usata sia da Kerouac sia da Ginsberg per definire la ricerca di ritmi frastagliati all’interno di un respiro melodico lungo del periodo in prosa o del verso, ricerca che ha per fine la scoperta del rigore implicito e necessario in ogni atto di improvvisazione ispirata. Il sassofono di Charlie Parker, in questo, è maestro a Ginsberg e Kerouac» (Urlo e Kaddish, 1997, pp. 6-7). Urlo, il manifesto poetico che diede inizio alla stagione letteraria della beat generation, ha nei suoi primi versi un esplicito riferimento al jazz, cui ne seguono altri tra i quali l’ultimo, particolarmente significativo nel determinare il contesto in cui si inserisce il recupero del jazz, tra erotismo e critica radicale al sistema americano, misticismo ed esaltazione di un’esistenza marginale e vagabonda: «Santo il rantolo del sassofono! Santa l’apocalisse Bop! Santi Hipsters di jazzbands marijuana pipe di pace peyote e tamburi!». Sassofono e bop significano essenzialmente Charlie Parker, innalzato dai poeti beat alle altezze di un santo o di un guru. Ginsberg declamava i versi di Urlo alla Six Gallery di San Francisco nel 1955, l’anno della scomparsa di Bird, quando l’apocalisse bop perdeva il proprio deus ex machina.

Il misticismo degli scrittori beat passa dalla trasfigurazione letteraria alla leggenda e viceversa. Inesorabilmente il nome di Parker viene recuperato da poeti e intellettuali di tutto il mondo e fatto oggetto di una mitizzazione senza precedenti. L’indissolubile legame tra la vita e il senso di tragedia che emana dalla sua opera legittimano la reciproca influenza tra musica e poesia nel cantare il sassofonista scomparso, proprio quando la generazione dei beat sta esplodendo come fenomeno culturale mondiale. Post mortem Parker diventa un’icona anche per la comunità nera allargata mentre prima era stato un mito per musicisti e artisti iniziati; dopo essere stato cantato dai poeti bianchi della beat generation viene finalmente rivendicato dai poeti black del riscatto culturale e della contestazione. Per questi ultimi l’allucinazione, matrice di tanta musica di Parker, non viene definita in rapporto alla droga, ma allo stato di alienazione dovuto alla segregazione dell’individuo di colore nella società americana. L’accento è sulla genialità di Parker, sulla eccezionalità, sul suo essere un eroe culturale, un riferimento e un esempio per il proprio popolo.

La mitizzazione di Parker è stata ultimata dai critici e accolta senza riserve dai fan che ne hanno trasfigurato la figura per farne un simbolo tragico del rapporto uomo-arte. Parker è stato santificato, in misura ancora maggiore di quanto in precedenza era capitato a Bix Beiderbecke, come aveva già rilevato Martin Williams. Per il critico Benny Green Bird è: «un numero uno tra i santi, per il quale ogni tentativo di analisi razionale del suo talento solitamente invoca la rigidità di una disputa teologica» (Green in The Reluctant Art, 1962).

«Ha vissuto veloce e c’è un fascino innegabile in quell’aspetto, ma senza dubbio il suo lavoro sopravanza la leggenda», ha scritto il poeta, scrittore, saggista beat e chitarrista jazz David Meltzer. Se un autore come Meltzer, abituato a occuparsi degli aspetti mitologici e letterari di questa musica, si esprime con tanta cautela è perché avverte quanto l’argomento sia incandescente e necessiti di essere raffreddato, più che alimentato.

Franco Minganti nel saggio Xroads. Letteratura, jazz, immaginario (Bacchilega,1994, pp. 86-87), ricostruisce i passi salienti e le motivazioni dietro l’immaginario collettivo che si è creato attorno alla figura di Parker. Dal libro di Julio Cortázar Il persecutore, al film Bird di Clint Eastwood, alla musa del Kerouac di Mexico City Blues, oltre alle numerosissime opere di intellettuali e scrittori di colore come Ted Joans, Amiri Baraka, Ishmael Reed, Al Young, Mance Williams e altri, in ogni campo artistico. Per Minganti questa vera e propria fede che si esprime con una divulgazione religiosa dello spirito parkeriano si deve attribuire al carattere di simbolo del personaggio che «incarnerebbe al meglio quella storia afroamericana o mito delle origini», ovvero la ricerca della libertà e dell’artisticità. Un’enciclopedia vivente di musica nera come Quincy Jones lo ha sintetizzato meglio di come potrebbe fare un lungo discorso nel brano Jazz Corner of The World (1989) che ha contribuito a traghettare l’eredità del jazz alle nuove generazioni e al pubblico hip hop. Il pezzo si presenta come una galleria di icone jazz da James Moody a Ella Fitzgerald, passando per Miles Davis e Joe Zawinul, fatte sfilare attraverso un rapido scambio rap tra Kool Moe Dee e Big Daddy Kane e intervallate da sampling degli artisti citati che esemplificano il loro stile. Un brano di black history musicale multimediale. Chi apre ovviamente la lista? Parker. E la lirica che lancia il primo sampling suona come un conciso slogan del “mito delle origini” di cui parlava Minganti: «And Charlie Paker created the sound, and the moment I heard him I said “that’s how music should sound”». Torniamo all’analisi di Minganti, che si occupa in modo dettagliato del romanzo di Julio Cortázar e ne mette in evidenza le motivazioni profonde: quell’interrogarsi sulla alterità, sulla diversità del genio artistico, sugli aspetti narrativi che si mischiano al fantastico e al filosofico, come l’ossessione di un tempo sempre sfasato. Rimandi che vanno al Parker dolorosamente in anticipo sui contemporanei e alla sua cronica mancanza di puntualità dovuta alla droga, ma soprattutto «all’irriducibile aspirazione a creare come un pittore, quando ne aveva voglia, non già a orari prestabiliti». Il tempo diventa una vera e propria ossessione creativa che si mescola con la follia prodotta dalla droga in uno dei passaggi chiave del romanzo, giustamente celebre: «Questo lo sto suonando domani, questo l’ho già suonato domani» (Cortázar, Il Persecutore, Einaudi, 1989, p. 7). L’eco di un futuro già vissuto. Minganti ha condensato tutte queste sfaccettature della personalità di Parker e le suggestioni provenienti dalle agiografie, parlando della sua vita come di una celebrazione dell’episodico e della transitorietà (Minganti, 1994, p. 89).

Pur con il suo atteggiamento anticonformistico e la sua alterità conclamata rispetto all’America bianca Parker fa parte del sistema, o meglio, una parte di sé avrebbe voluto farne parte. Se è stato un proto-beat lo è stato a sua insaputa. Anche il LeRoi Jones di inizio carriera (non ancora trasformatosi in Amiri Baraka) cedeva alla seduzione di annoverare il musicista nella nuova generazione dei ribelli; questo perché Parker negli anni Cinquanta frequentava il Greenwich Village, tradizionale luogo di ritrovo della bohème americana, vivaio di tante esperienze artistiche. Dunque il Parker del Village si sarebbe allontanato dal ghetto, interrompendo quel legame naturale che univa i musicisti jazz e gli intellettuali neri alla loro comunità (Baraka, Il Popolo del blues, 1963, ed. Shake Undergrund, 1994 p. 199). Eppure il filo tra il musicista e la sua gente si è spezzato per altri motivi, in primis l’isolamento causato ai bopper dal mantenere pura la loro arte, e l’anticonformismo tipico in ogni avanguardia intellettuale che portava Parker e sodali lontano da quella musica commerciale che aveva inquinato le sorgenti del jazz. Lì è il momento che ha significato il distacco del musicista dalla sua comunità, seppure, come vedremo, solo temporaneo. Per confortare la propria tesi, LeRoi Jones racconta come Parker per un certo periodo della sua vita avesse vissuto al Village, dividendo un appartamento con un poeta e un pittore di colore. Episodio che non dimostra nulla: il sassofonista venne raccolto in uno stato evidente di confusione mentale e ospitato nella loro abitazione dai due artisti che lo avevano riconosciuto, nonostante l’aspetto trasandato e il fisico sfatto; infatti di lì a poco sarebbe morto a casa della baronessa Pannonica de Koenigswarter, ricca e anticonformista bohémien protettrice di tanti musicisti jazz (Russell, 1988, pp. 226-236). In questa ristretto spazio geografico confinato tra Harlem e Broadway, il Village rappresentava una sorta di territorio neutrale, un luogo fisico dove il bebop poteva sopravvivere e un personaggio come Parker vi era rispettato. Un equilibrio precarissimo, in un mondo piccolo e fugace.

Il senso di transitorietà della vita di Parker si riversa nella morte, lontano dagli affetti, lontano dalla musica, lontano dalla sua gente: è la fine di un uomo solo. Eppure nonostante da lui abbiano preso spunto i poeti della beat generation, gli hipsters, la cultura underground, nonostante le tragedie e le vicissitudini della sua vita sregolata, nonostante la sua frenesia di spingersi all’eccesso e l’abuso di droga, ma anche di cibo, liquori, sesso, nonostante Parker sia diventato uno dei simboli della trasgressione ante litteram, ci sono precise testimonianze che ci svelano un Parker diverso. Non aveva più posseduto una casa propria dai tempi dell’adolescenza con la madre a Kansas City. E in effetti durante i primi anni Cinquanta, dopo aver iniziato una nuova relazione affettiva si trasferì in un discreto appartamento nel quartiere dell’East Village, che era allora un ghetto polacco. Ross Russell riporta nella biografia che quella abitazione, lontana da Harlem, non divenne mai un “porto di mare” per artisti e amici. Passava molto tempo in casa, portava a passeggio la figlia, parlava con i nuovi vicini di quartiere. E’ da quella casa che Parker, in compagnia della figlia, risponde al telefono al dj Leigh Kamman per l’intervista radiofonica riscoperta recentemente, in occasione del centenario e ora disponibile in rete1. Anche in questo breve frammento audio le ambivalenze trionfano: parlando con il giornalista Parker si sforza di mantenere un buon eloquio, ma la voce è bassa, confusa e cavernosa, il giornalista gli chiede chi sono le nuove promesse del jazz, ma sentiamo il nostro più a suo agio parlando delle partiture di Bartók e Stravinskij. I pranzi domenicali nella casa “borghese” diventarono avvenimenti importanti per lui che cercava di essere un buon padre, un buon marito e un perfetto gentiluomo con gli ospiti. Nonostante Parker avesse sempre rifuggito i modelli di comportamento tradizionalisti, adesso cercava disperatamente di inserirsi in quel mondo che lo aveva snobbato e che lui aveva rifiutato; era alla ricerca di una rispettabilità sociale dopo aver tentato di ottenere la dignità di artista. Ecco un ricordo di questo periodo della nuova compagna Chan Richardson: «Lo vedeva salire le scale della stazione con un soprabito di vigogna scura e una copia del ‘The New York Times’ arrotolata sotto il braccio. Cercava in ogni modo un simulacro di rispettabilità. Secondo Chan, se gli fosse stato possibile tornare indietro nel tempo – e se fosse stato bianco e privo di talento – Charlie avrebbe vissuto il resto della sua vita come un ‘tranquillo borghese’» (Russell, p. 204). Lo stesso hobo, il vecchio modello di vagabondo di cui Parker e i beat riprendono lo stile di vita, personaggio antitetico all’individuo borghese, è un prodotto sociale e culturale autenticamente americano. La mobilità della popolazione è elevata, lo è sempre stata dai tempi dei pionieri alla conquista dell’Ovest, è una caratteristica dell’americanità. Lo hobo ha sviluppato un rapporto ambivalente nei confronti della società che lo rifiuta come superfluo, che lo tiene ai margini, che lo usa come forza lavoro di riserva per lavori faticosi: da una parte rifiuto dei valori borghesi, di una sistemazione convenzionale, dall’altra l’idea di fare comunque parte del sistema. Un hobo, ottenuto il lavoro saltuario che gli ha permesso di raggranellare qualche soldo, si compra vestiti nuovi, frequenta ristoranti e supermercati, cerca di vivere riccamente per qualche giorno. Prendiamo come pietra di paragone la testimonianza di un hobo, riportata da Kenneth Allsop in Ribelli vagabondi nell’America dell’ultima frontiera (Laterza, 1969, p. 429): «Può sembrare buffo, ma anche come hobo senti di far parte del sistema americano. Al termine di un lavoro ferroviario ti ritrovi con un paio di centinaia di dollari e, anche se non rientri proprio nel sistema, puoi godere di un certo lusso per un paio di giorni. Ripulito da capo a piedi e con una camicia nuova, vai in giro per il supermercato dicendo – Compro questo e compro quello, proprio come chiunque altro».

Abbiamo esempi di questa trasformazione da hobo a borghese e viceversa in mille testimonianze, ma questo in/out sociale tocca il culmine nelle vite On the Road vere o letterarie dei beat.

Questo stesso spirito del transitorio, peculiarmente americano, lo ritroviamo in Parker.

Come gli hobo, anche lui odiava il sistema e allo stesso tempo vi era inserito, e quanto più forte era il peso della discriminazione razziale, più acuto diventava il desiderio di un riconoscimento, più scivolava negli abusi e tanto più lo prendeva la tentazione di tentare un improbabile rientro nel consorzio borghese.

In questa prospettiva si potrebbe inquadrare diversamente la sua voglia di trasferirsi a Parigi e diventare allievo di Marcel Mule, il padre del sassofono classico, o studiare composizione con Nadia Boulanger o Edgard Varèse o la mancata collaborazione con Stefan Wolpe. Ricorda Tony Scott il primo incontro tra Wolpe e Bird. Wolp spiegò entusiasta quanto gli piacesse la sua musica e l’altro rispose e «con il suo miglior tono shakespeariano: «Maestro, sarei onorato se lei scrivesse qualcosa per me e una orchestra da 75 elementi. Il signor Norman Granz le pagherà il lavoro». Probabilmente Granz non avrebbe mai prodotto di tasca una operazione monstre di quel genere, ma che non fosse solo una boutade lo dimostra l’omaggio di Wolpe nel Quartet for Saxophone, Trumpet, Percussion, and Piano (1951). Parker chiese a Varèse di diventare suo allievo in composizione, proponendosi di ricambiare facendo il suo domestico o il cuoco. L’immagine di Parker maggiordomo di Varèse sembra uscire da una canzone surrealista di Frank Zappa e aprirebbe discorsi infiniti sulla rappresentazione (o autorappresetnazione, dovessimo dar retta a questo aneddoto) del nero nell’America bianca. Tra Parker e la classica altro non ci fu o mancò il tempo. I due mondi si parlavano, si ascoltavano ma rimaneva una barriera.

In quello stesso 1951 dell’omaggio di Wolpe avvenne anche il vagheggiato incontro tra Parker e Stravinskij, giocato dal compositore russo “in trasferta”, su un campo che non era certamente il suo. La scena si svolge al Birdland, con il compositore russo seduto in un tavolino con gli amici, intento a sorseggiare il suo drink entusiasta mentre il sassofonista di fronte a lui sul palco prende una velocissima Ko Ko interpolando nel suo assolo frammenti tematici dell’Uccello di fuoco. (Questo incontro, forse apocrifo, viene raccontato con dovizia di particolari dallo storico della cultura Alfred Appel Jr. nel libro Jazz Modernism. From Ellington and Armstrong to Matisse and Joyce, Yale University Press, 2004). A parte l’aneddoto, vero o falso che sia, il libro di Appel ha il merito di porre in evidenza il corretto posizionamento del jazz all’interno del movimento filosofico estetico noto come modernismo. Il bebop in particolare, come scrive Eric Lott, è stato certamente uno dei grandi esempi del modernismo2.

1 Helmut Failoni ha parlato della riscoperta di questa registrazione nell’articolo Pronto, si può parlare con Charlie Parker? In La Lettura n.446, 14 giugno 2020, p. 51.

2 Eric Lott, Double V, Double-Time: Bebop's Politics of Style in Callaloo No. 36 (1988), p. P.602, The John Hopkins University Press

L’incontro tra Stravinskij e Parker è quasi una riproduzione mimetica di un abboccamento a distanza tra le arti. La musica è al centro, ma i piani sono sfalsati, sia metaforicamente che fisicamente. Parker è sulla pedana, sudato e impegnato a suonare al suo meglio, il compositore è in platea, lontano dalla sua sfera lavorativa, intento a godersi la performance. Solo all’apparenza la vicinanza fisica e spirituale può apparire buona. Aleggia in questa scena un senso di inautenticità, non dovuto al fatto in sé ma al contesto in cui si svolge. Potremmo interpretare l’omaggio di Parker al compositore russo come una risposta istintiva al senso di alienazione innescato dalla situazione. Parker ossequia la musica classica trascinandola nel proprio campo espressivo per neutralizzarne la carica destabilizzante. Un tentativo di aggirare o disinnescare l’uso borghese della cultura alta come arma di accreditamento morale, quello che Nietzsche aveva definito “filisteismo della cultura”. Una trappola che qui Parker sembra evitare, ma che -ecco una ennesima maschera che si rivolta nel suo contrario- in altre occasioni avrebbe accolto in pieno.

La brevità della vita di Parker non permette di speculare oltre, la pulsione autodistruttiva aveva preso il sopravvento, come stava in parallelo accadendo al già ricordato Dylan Thomas, che avrebbe preceduto di due anni il sassofonista nel tragico epilogo. Stravinskij avrebbe dopo poco omaggiato il poeta con In memoriam Dylan Thomas (1954).

Parker si dibatteva nel tentativo di trovare la via per trovare una propria rispettabilità nel sistema musicale, perché agiva come artista in quel mondo e sentiva di doversi inserire lì a pieno titolo. Lo sberleffo dell’hipster o il filisteismo erano entrambe opzioni in campo che agivano alternativamente generando l’ennesimo sdoppiamento di personalità.

Parker odiava il sistema e lo desiderava. I simboli della rispettabilità sociale (la casa con giardino nella periferia residenziale, la cadillac, i bei vestiti, il denaro) costituivano aspirazioni concrete del Parker uomo e non del mito trasgressivo, anche se non riuscì mai a conquistarli definitivamente, sia per la sua incapacità di decifrare fino in fondo la realtà, sia per una indisponibilità di fondo a conformarsi a essa. Otteneva molto ma altrettanto perdeva, spesso incurante del denaro che sprecava. Nel continuo dissesto finanziario, la macchina di lusso dovette essere venduta per racimolare i soldi necessari a regalare una bicicletta alla figlia, ma, come scrisse poi la moglie Chan nell’autobiografia La mia vita in mi bemolle a quell’epoca Parker aveva accumulato «più di cinque Cadillac nelle vene». (cit. in Woideck, p.56). Quel Parker avrebbe potuto alzarsi e declamare a parole quello che il suo sassofono esprimeva altrettanto chiaramente: «Io non sono quello che sono», rubando una frase allo Iago dell’Otello di Shakespeare, personaggio che rappresenta il villain, demone travestito da angelo, conservatore rivoluzionario, leale compagno al sole, abietto nell’ombra. Un Otello-Parker che potrebbe tranquillamente fare proprio il verso della poesia Jazz – listen to it at your own risk: «la vita è un sassofono suonato dalla morte», una immagine che il poeta Bob Kaufman aveva ricavato da Bird, sua costante fonte di ispirazione.

Sgombrando il campo da tutte le ambivalenze, Parker rappresenta un artefice della rivoluzione del jazz, un traghettatore di questa musica verso una dimensione artistica e non commerciale, il suono del suo sassofono è uno spartiacque tra antico e moderno.

Il bebop fu a lungo considerato rivoluzionario dai contemporanei ed è un paradosso che oggi essendo divenuto il fondamento del jazz contemporaneo sia visto, con una notevole distorsione della oggettività storica, come un fenomeno conservatore. Il batterista Kenny Clarke, uno dei protagonisti della prima fase del bebop, spiegò in un intervista che quando il genere non era stato ancora etichettato i musicisti lo definivano semplicemente “musica moderna”. Nasceva da un cenacolo ristretto che non si poneva il problema di avere un nome, come capitava alle “scuole” artistiche di retaggio europeo e, almeno all’inizio, non venne neanche etichettato a forza da superiori esigenze commerciali. Reagiva all’ambiente circostante, sia quello musicale che sociale. «Raramente si è avuto nell’arte un movimento che ha mostrato tanto chiaramente quanto lo ha fatto il bop le traiettorie delle forze sociali che gli stavano dietro», ha scritto James Lincoln Collier nell’incipit del capitolo The Bop Rebellion contenuto in The Making of Jazz (1978). La filosofia dei musicisti non è stata il mero prodotto di una corrente culturale, ragiona Collier, ma la fisionomia della musica stessa, il modo in cui la musica è pensata e suonata venne determinato dai cambiamenti della struttura sociale, cambiamenti che nei fatti stanno ancora proseguendo.

Da dove è arrivato il bebop? Dalla polizia, risponde Langston Hughes, che ne descrisse in un immaginifico racconto la genesi: «E’ la polizia che picchia sulla testa dei neri che ha ispirato il bop. Ogniqualvolta uno sbirro colpisce un nero con il suo manganello, questo maledetto bastone fa: Bop Bop!…Be Bop!… Mop Bop!. E il nero urla: Uoool Ya koo! Ou-o-o! e il maledetto poliziotto ne approfitta per continuare a picchiare: Mop!Mop! Be Bop! Mop!. Tale è l’origine del bebop; il ritmo dei colpi sulla testa del nero è passato direttamente nell’interpretazione che danno del bebop trombe, chitarre e sassofoni» (Bop short story, in The Best of Simple, 1949). Il bebop si inseriva come un complemento sonoro al fermento sociale in atto, in presa diretta. Ora è il momento, Now’s the Time. Questo blues dell’autunno 1945 sicuramente riprende nel titolo gli slogan che attraversavano l’America nera di quel periodo. Due anni prima del brano, nel 1943, si erano verificati scontri razziali in molti ghetti urbani, nel quadro di un generale acutizzarsi della rabbia. L’effervescenza sociale della comunità stava crescendo, le organizzazioni si stavano risvegliando, in quel periodo la NAACP stava ingrossando le sue fila e veniva fondato il CORE, un Ente che si sarebbe occupato in particolare di uguaglianza razziale. il movimento sindacale di A. Philiph Randolph stava ottenendo importanti risultati sul fronte dell’integrazione del lavoro. Il clima di guerra acutizzava le frizioni. La guerra mondiale metteva i neri di fronte a due opzioni: dal rifiuto del conflitto, all’insegna del “non ci riguarda”, alla opzione “Double V” vittoria all’estero e vittoria in casa, ovvero si combatte in cambio di un avanzamento sociale. Adesso è il momento e Now’s The Time non rimane solo un titolo per un pezzo bebop da manuale ma riacquista in parte quel valore modernista e sociale quando entra nel discorso I have a dream di Martin Luther King o fa capolino in una poesia di William Carlos Williams o riaffiora, decenni dopo, in un quadro di Basquiat. Tutte queste opere citano implicitamente o esplicitamente Now’s the Time, dando una marcata connotazione “civile” al tempo finalmente arrivato per la comunità nera.

Ancora negli anni Sessanta, quando tutti i jazzisti del mondo avevano ormai metabolizzato da tempo la lezione del bebop, il prestigioso poeta e critico inglese Philip Larkin condannava Parker come un esempio di “modernismo sfortunato” nelle arti, accostandolo a Picasso per la pittura e a Pound per la poesia. Per sfortunato Larkin intendeva un qualcosa di estetisticamente brutto; arte che inseguendo il mito della modernità aveva perso valore. Parker avrebbe invece apprezzato l’accostamento con Picasso: amava la pittura e voleva realizzare un album di impressioni ricavate dalle sue opere e da quelle di Rembrandt e Toulouse-Lautrec. L’opinione reazionaria di Larkin è stata efficacemente contrastata; per rimanere nel campo dell’alta cultura, pensiamo in anni recenti alla presa di posizione condotta sempre tramite accostamenti “a tutto campo” dal sommo critico Harold Bloom che inserisce Parker nel suo catalogo di opere rappresentative del “sublime americano”, con i brani I Remember You e Parker's Mood, a fianco di lavori dei fratelli Marx, di William Faulkner, Hart Crane e Thomas Pynchon.

Questa visione del sublime sembra lontana dalle angolosità del bebop ma coglie la non comune gioia espressiva dei migliori momenti di Parker. Johnny, l’alterego di Parker nel Persecutore, portava sempre con sé un libro del poeta monstre della bohème anni Quaranta, Dylan Thomas, e amava particolarmente una lirica contenente questo verso: «Mi muovo solo in una moltitudine di amori».

Non esiste un’evidenza del fatto che davvero Parker si portasse appresso un libro di Thomas, come si vuole nel Persecutore, ma il parallelo sviluppato tra i due da Rexroth -che abbiamo già esplorato- era moneta corrente nel mondo jazz ed era stato anche proposto da Ross Russell, produttore con la sua Dial di alcune facciate storiche del Parker maturo1.

In esergo al Persecutore campeggia una frase di Dylan Thomas: «O make me a mask», rendimi una maschera, è l’invocazione di un travestimento che possa difendere dal mondo, o conquistare la rispettabilità, il consenso, l’approvazione della società.

La maschera è un mezzo di difesa comune nella psicologia dell’afroamericano del Novecento, a volte inconscia, a volte lucidamente teorizzata. Leggiamo la storia di George, poeta e perditempo, protagonista di The Life and Loves of Mr. Jiveass Nigger (1969), romanzo picaresco di Cecil Brown (in italiano Gli amori di un signor negro fetente, Longanesi, 1972). George vive da espatriato in Danimarca, in fuga dal razzismo del suo paese. Frequenta i locali jazz come il Montmartre e la comunità di musicisti, scrittori e parassiti che si trova nel paese. Il romanzo è ambientato nella metà degli anni Sessanta, nei giorni della morte di Malcolm X. Tutti parlano di black power, di liberazione nera e ascoltano Coltrane, Ayler, Shepp, ballando i ritmi di James Brown.

George, che si trascina da una avventura sessuale all’altra con le ragazze bianche danesi, non usa mai il proprio nome vero, anzi ne inventa continuamente di nuovi, con corrispondenti personalità. Tutte maschere, rigorosamente false. E quando mente per farsi dare dei soldi, accumulando menzogne su menzogne, lo fa con atteggiamento consapevole: «si stava godendo la fantasticheria, e oltretutto le bugie, come un a solo improvvisato da Charlie Parker, erano più convincenti quando le sparava à l’improviste».

Tutti i musicisti jazz, in particolare quelli del periodo swing-bebop, hanno dovuto indossare, a volte inconsciamente, a volte per calcolo, una maschera di fronte ai giornalisti e agli intervistatori, spesso bianchi ed europei, uno scudo protettivo verso le leggi dello spettacolo, le logiche del palco, il razzismo espresso o latente della società americana, l’incomprensione della loro comunità di base. Lo hanno fatto per proteggere la loro immagine, quella dell’arte prodotta e infine anche per consegnare alla storia una “corretta” eredità culturale di questa musica2.

Parker, uno dei musicisti in prima linea nella fase di passaggio tra swing e jazz ha dovuto come tutti indossare le sue maschere protettive, come hanno fatto Dizzy Gillespie (solare e interventista) o Thelonious Monk (solitario ed ermetico), Charles Mingus (volubile e scontroso) per citare solamente tre personaggi chiave vicini a Bird ma distanti tra loro nell’approccio al mondo esterno.

Non solo le storie agiografiche aggiungono sempre più dettagli contrastanti tra loro: la vita di Parker era irta di opposti che lui riusciva in qualche modo a cucire insieme, solo la velocità con cui viveva superava quelle che Stanley Crouch ha definito “anomalie senza fine”.

«Vivevo uno stato di panico costante», raccontò una volta Parker parlando dei suoi momenti bui e Burroughs o Miller non avrebbero saputo descrivere meglio l’incubo ad aria condizionata che l’America può rappresentare per i propri artisti.

Crouch riporta una frase che Parker avrebbe detto in una conversazione con il collega sassofonista Big Nick Nicholas: «Una notte sono alla Carnegie Hall e la notte dopo sono da qualche parte nel New Jersey allo Sloppy Joe’s» (Crouch, Bird Land, in Robert Gottlieb, Reading Jazz 1997, p. 1027). «Suonare dal vivo è un vizio perverso», scrisse Parker in una sua poesia, giudicando lucidamente il vortice di degrado nel quale era immerso. Harvey Cooper, un pittore che era suo amico intimo, ricorda questo dialogo «Gli chiesi perché a volte deludesse la gente disertando concerti annunciati. “Tu fai il pittore”, rispose; “dipingimi un quadro adesso”» (Reisner, p.77). L’arte non è una merce facile da maneggiare in un jazz club e Parker per riuscirci doveva dibattersi in una lotta sia interiore sia con il mondo circostante.

«Nessun jazz man, neanche Miles Davis, ha lottato più duramente di Charlie Parker per sfuggire il ruolo da entertainer», ha ribadito Ralph Ellison in Shadow and Act (1964) nel frizzante capitolo a lui dedicato On Bird, Bird-Watching, che gioca fin dal titolo con il suo soprannome. Poco oltre Ellison propone questo riepilogo, quasi senza appello, della vicenda parkeriana: «Era un outsider, -e Bird fu tre volte alienato: come Nero, come tossicodipendente, come esponente di un nuova e aggressiva evoluzione del jazz- le cui torture e i cui sforzi in un certo senso criminali, verso una integrazione personale e morale, provoca un senso di tragica emulazione in coloro che videro nella sua agonia una ritualizzazione delle loro paure, ribellioni e fame di creatività».

1 Così per Robert W. Felkel, The Historical Dimension in Julio Cortázar's "The Pursuer" Latin American Literary Review

2 Sul tema si veda il lavoro di Henry Daniels Douglas, Oral History, Masks, and Protocol in the Jazz Community The Oral History Review, Vol. 15, No. 1, Oxford University Press, pp. 143-164.

Ecco alcune stazioni dantesche dell’alienazione parkeriana: prestigiosi recital in sale da concerto e poi la gig mal pagata nei locali infimi, talento immenso a volte esercitato su sassofoni presi a prestito perché il proprio strumento è stato impegnato per una dose, begli alberghi e altre volte come giaciglio una strada. Interessi nella letteratura, nella filosofia e nell’arte, ma nulla di perseguito con costanza e, ancora, il peggiore di tutti: attrazione per la musica classica e l’arrangiamento, per finire a interpretare standard con violini melensi, simulacro di una vera orchestra. Tutti i sogni di miglioramento personale sembrano sempre voltarsi in incubi. Si potrebbero enumerare le contraddizioni di Parker e cercarne altre ancora, perché Parker era, sentenzia Crouch riecheggiando involontariamente l’accoppiata Dylan Thomas/Julio Cortázar, «un uomo fatto di maschere».

Secondo il critico letterario e culturale americano Lionel Trilling il concetto di maschera si dispiega in una ragnatela di implicazioni filosofiche che legano insieme due pensatori apparentemente distanti come Oscar Wilde e Nietzsche. «Entrambi espressero un antagonismo di principio nei confronti della sincerità, entrambi parlarono in lode di ciò che chiamano la maschera» (Sincerità e autenticità p.170). L’opera d’arte per dispiegare i suoi effetti ha più bisogno di maschere che di verità. «L’uomo è meno se stesso quando parla in prima persona. Dagli una maschera e ti dirà la verità», scrive Oscar Wilde ne Il critico come artista. Nietzsche risponde in Aldilà del bene e del male: «ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera». Sono considerazioni che ci aiutano a comprendere quanto autori come Komunyakaa o Cortázar siano andati vicini al nucleo pulsante dell’opera di Parker tramite il lampeggiare delle loro frasi, senza preoccuparsi di sciogliere troppo le contraddizioni. «E’ stata una tragedia recitata su un pericolosamente complesso fronte culturale e politico, qualcosa di più intricato della cruda mitologia hipster del Bird di Eastwood. E’ stata una storia completamente americana di rimarcabili trionfi, testardi fraintendimenti e risorse dissipate, che ci parlano tanto dell’identità di questo paese quanto del potere del jazz», è ancora Crouch a scrivere così, recensendo alla sua uscita in sala il film Bird di Eastwood, proponendo immagini che riassumono il senso di questa vicenda artistica e umana, non riducibile a un quadretto pacificato o a un film agiografico. D’altronde Parker sfugge anche ad alcune categorie di comodo che avviano anche l’interpretazione estetica più semplice: fu un precursore istintivo? Fu un ribelle? O fu piuttosto un lucido rivoluzionario? Per George Kubler: «Il precursore non può avere imitatori: egli è sempre un tipo sui generis, mentre il ribelle, proprio perché facile a imitare, è sempre in numerosa compagnia. Il precursore dà forma ad una nuova civiltà, il ribelle segna il limite di una civiltà in via di disintegrazione» (La forma del tempo. Considerazioni sulla storia delle cose, Einaudi, 1976, p.109). Se dovessimo applicare questa formula dovremmo concludere che Parker - il quale ebbe una sterminata pletora di imitatori- era un ribelle, ma quegli abiti al nostro vanno stretti e d’altronde non può neanche vestire quelli del precursore solitario; però, tra questi estremi, la sua figura certamente segna “il limite” tra due mondi musicali.

La parabola creativa di Parker rappresentò uno spartiacque per il jazz, la sua morte, nel 1955 indicò chiaramente che un’era musicale era giunta al termine, come scrissero Samuel Charters e Leonard Kunstadt, riprendendo la sempre verde similitudine con il destino di Bix Beiderbecke (A History of the New York Scene, Da Capo, 1962). La sua tragica fine fu una seconda perdita dell’innocenza. Dopo di lui non fu più possibile considerare il jazz come una forma di intrattenimento, era stato pagato il tributo drammatico ma romantico necessario per entrare nel novero delle arti nobili come Bix Beiderbecke aveva pagato quello di essere bianco e voler suonare la musica nera da creatore e non da imitatore, scontando pregiudizi su più fronti. Bix, Bird: hanno davvero pochi elementi in comune, ma certamente entrambi non riuscirono a far convivere il proprio talento con il mondo. In Parker questo delicato equilibrio in lotta perenne tra talento interno/mondo esterno andò compromettendosi nel corso degli ultimi anni della sua breve vicenda umana.

Nei mesi precedenti la fine Parker perse ogni residua capacità di autoanalisi; si vedeva dal di fuori e si giudicava come se stesse pensando a qualcun altro. Questo è l’ultimo e più drammatico simbolo dell’alterità: quella da se stessi. Emil Cioran: «Il ‘destino’ non era che una maschera, come è maschera tutto ciò che non è la morte»1. Solo la morte ha definitivamente innalzato Parker al di sopra delle tante maschere che lui stesso ha indossato o altri gli hanno imposto nella sua veloce esistenza.

1 Emil Cioran, La tentazione di esistere, Adelphi, 1984, p. 185

Titoli di coda

Charley Parker, perdonami-
Perdonami se non rispondo ai tuoi occhi-
Se non ho reso bene
Ciò che sai escogitare-
Charley Parker, prega per me-
Prega per me e per tutti
Nei Nirvana della tua mente
Dove ti occulti, indulgente e immenso,
Non più Charley Parker
Ma il segreto nome indicibile
Che porta con sé meriti
Non misurabili da qui
Da: 241esimo refrain di Jack Kerouac, Mexico City Blues (1959)