Simona Colonna

interviste

Simona Colonna Con Chisciotte io canto il mondo

22/01/2018 di Corrado Ori Tanzi

#Simona Colonna#Italiana#Folk

Polistrumentista con pedigree marchiato Conservatorio. Flauto traverso e violoncello a Cuneo e a Torino. Docente musicale con percorsi multipli, tra cui vent’anni di alfabetizzazione musicale per i bambini (e già per questo meriterebbe la medaglia di benemerita). Compositrice e cantante. Una voce calda, fluida, avvolgente. Accanto a lei Chisciotte, il suo violoncello che, salvo rari casi, è l’unico supporto fonico per la sua musica. Eppure, ad ascoltarla, sembra che suoni un’orchestra. Le sue canzoni raccontano storie forti, leggende e misteri. In piemontese (è di Fossano, terra cuneese) e in italiano. Perché la musica popolare non smette di pulsare.
Lei è Simona Colonna, uscita ora con la sua ultima registrazione, Folli e folletti. Questa la nostra conversazione.

Ma davvero Afric Simone le aprì le porte al canto?

«Sì, la maestra Lucetta quando avevo 3 anni mi metteva sul davanzale della finestra della scuola materna e io con una matita che usavo come microfono cantavo Ramaya, ovviamente con le parole modificate. Cantavo: “Ramaya cuc cu cu Ramaya/ abauti Ramaya/ milacatungala cu cucu Ramaya…” . Poi, quando arrivava settembre e mio padre ci portava al mare, io cantavo in spiaggia a tutti i vicini di ombrellone, compresi i tedeschi che ai tempi affollavano la Riviera ligure. Cantavo Carissimo Pinocchio, Que será, será, Nel blu dipinto di blu. Insomma chiaro quale sarebbe stato il mio futuro, no?»

Chisciotte, il suo violoncello, è in pratica un’elongazione strutturale, una protesi naturale del suo corpo. Eppure lei incomincia col tamburo nella banda di paese, poi passa alla fisarmonica e per quasi vent’anni insegna flauto traverso. Come avvenne che il violoncello la rapì non volendo più condividerla con altri colleghi strumenti?

«Io e Chisciotte siamo una cosa sola, lui è voce quasi umana. Ho iniziato con la fisarmonica e il tamburo in banda poiché ai tempi, nel mio paesino di Baldissero d’Alba (CN) era l’unico approccio fattibile. Mio padre suonava con la chitarra le canzonette e tutti in famiglia hanno sempre cantato, seppur tra le mura di casa. Tra i miei inizi anche un po’ di organo, pianoforte e chitarra, ma sempre in modo rigorosamente spontaneo per qualche anno. Frequentando le scuole medie mi sono appassionata al flauto e d’accordo con la docente di educazione musicale, decisi di iscrivermi al Conservatorio. Dopo il primo anno di flauto traverso, presa completamente dal piacere di studiare lo strumento, decisi di cominciare anche il violoncello perché durante un concerto mi innamorai di quella voce, fatta di venature armoniche che attraverso il legno emanava dolcezza, calore, passione e malinconia.»

Perché ascoltandola ci dimentichiamo di essere raggiunti “solo” da una voce umana e da quello di uno strumento a corde dall’ancestrale suono basso?

«Credo, ma forse dovrebbe rispondere il pubblico, di lasciare rispettosamente spazio tra i suoni nelle mie composizioni per dar modo e tempo di far viaggiare la memoria e l’inconscio musicale liberamente, così da non esprimere solo due suoni ma, con essi, fare armonizzare le mie melodie.»

A ogni musicista che ho posto la seguente domanda ho ricevuto sempre la medesima risposta: lo strumento che suono è quello che più si avvicina alla voce umana. La anticipo: perché il violoncello è la sua voce umana?

«Chisciotte canta e suona umanamente. Noi andiamo d’accordo e quando non ci si trova, con pazienza studiando e ristudiando, troviamo la quadra. Ma non è solo una voce la sua, Chisciotte si presta a fare di tutto, è un versatile compagno. In Folli e folletti è sfruttato al 90% per questioni di registrazione, poi in concerto lo percuoto, lo strofino, me lo tengo al collo tra la spalla e la testa e ci cammino insieme, in tante cover lo strimpello come una chitarra. No, non si avvicina solo alla voce umana. Può fare ed essere molto di più.»

Il suo ultimo disco Folli e folletti si alimenta di racconti di personaggi inchiodati da un dolore o da un’incapacità di fondo a stare sulla strada principale. Perché la necessità di questo sguardo?

«In questo disco ho pensato di inserire anche brani con testi e musiche più complessi e affrontare temi piuttosto impegnativi, come la follia, l’immigrazione e le guerre semplicemente perché sono parte dell’esistenza e del mondo. Ci sono però anche brani che cantano di sorrisi, di sogni, c’è l’amore e il divertimento. Non trovo di essere stata troppo inchiodata al dolore. Di carattere sono ottimista e mi reputo molto fortunata. Poi denuncio quello che vivo e che capita sulla mia strada, e lo racconto attraverso i suoni.»

Un brano particolarmente denso è La bicicletta partigiana. Da cosa è nata l’idea di far sentire gli umori, l’atmosfera di quella dolorosa pagina della nostra storia tramite un oggetto?

«Anni fa incontrai Meghi, una donna di 96 anni di Alba che era stata una staffetta partigiana delle nostre Langhe. Ci parlai per tre ore e diventammo amiche. I suoi racconti mi davano la pelle d’oca, come quando venne catturata e quasi fucilata. Bene, la mia cominciò immediatamente a comporre questa canzone. Lei pedala, lei pedala… la storia nei piedi ha! Era proprio quello che vivevo nella mia immaginazione, mentre lei mi stava raccontando la sua vita. Così ecco la canzone La bicicletta partigiana”. Ho allegato questo brano a un libro bibliografico che parla di lei. Giovanna Zanirato e Donato Bosca raccontano la sua vita in Meghi. La staffetta delle Langhe libere, edito da Araba Fenice.»

Nell’album firma tre pezzi che riguardano la leggenda letteraria cervantina. Che legame sente tra quel preciso periodo castigliano e il tempo della contemporaneità che canta?

«Da sempre e per sempre ci saranno dei Don Chisciotte visionari pronti a combattere contro i mulini a vento per difendere le proprie convinzioni. E questo in letteratura, in musica e nella vita. Mi sembra tutto molto contemporaneo. Io ovviamente sono la Dulcinea nella mia canzone, colei che viene trovata dal suo Chisciotte tra le teste di girasole. L’unica a sorridere è lei, cioè io. Di certo sognatrice, visionaria e innamorata della vita.»

Riesce a percepire la reazione del pubblico “forestiero” mentre canta i suoi pezzi?

«Certo, sempre. I miei suoni nascono per comunicare, mai per esibire qualcosa. Il pubblico lo sente sempre e lo condivide.»

Come avviene il suo procedimento compositivo?

«A volte mi vengono naturalmente melodie che immediatamente lavoro con un contrappunto ritmico e melodico. Registro lo scheletro del brano nascente con un programmino al computer o con un registratorino a cassetta vecchio stile. Da lì in poi è tutto un arricchire, aggiungendo o a volte togliendo suoni. Per ultimo il testo. Poi lascio riposare, come un vino che deve decantare, sedimentare e maturare. Dopo qualche tempo vado a riascoltarlo e se è pronto lo definisco. Altre volte è esattamente il contrario, nascono le parole, scrivo immediatamente i pensieri ai quali cucio un accomodante accappatoio addosso fatto di suoni, morbidi o duri a seconda del testo. Ci sono momenti in cui viene tutto insieme. Una bella parola che mi suona nella mente con il suo suono ed è subito musica.»

Dal punto di vista lirico, le sue composizioni sono un viaggio tra piemontese e italiano. Perché la necessità di questo rimbalzo fonetico?

«Il piemontese è la mia lingua d’origine, lo parlo con chi mi parla. Le radici non si dimenticano, sono la nostra memoria ma pure il presente e futuro della vita. I miei brani sono la proiezione della mia mentalità, tra il piemontese e l’italiano. Ecco spiegato il rimbalzo fonetico.»

Di che tipo di poeticità si nutre la lingua di casa sua?

«Ah, che bella domanda! Ci sono modi di dire, parole in lingua piemontese che non hanno traduzione, significano quello solo nell’ambito in cui vengano usate . Quando due ragazzi si amano e si fidanzano, noi diciamo: “Si doi es parlu”, tradotto in italiano sarebbe “questi due si parlano”. Non si usa la parola amare, ma parlare, che ha lo stesso significato. Ogni dialetto ha poesia tra i suoni delle parole che lo compongono. Poi sta all’artista decidere di usarla e in quale modo.»

Si immagini con un altro strumento: la scelta linguistica sarebbe la medesima o è proprio la coloratura e la timbrica del violoncello ad averla convinta a presentare canzoni in piemontese?

«Il violoncello è lui perché è il mio fido accompagnatore, il mio compagno, il mio condivisore di vibrazioni sonore e umane, ma io canterei in piemontese con qualsiasi strumento. Trovo che la raffinata emissione sonora del violoncello si sposi perfettamente con la pronuncia piemontese, a volte po’ spavalda, e qui il cello smussa questa spavalderia, a volte calda con le “r” morbide che si uniscono agli armonici violoncellistici. Utilizzerei la mia piemontesità anche accompagnata da un contrappunto eseguito da un fagotto o magari in una ninna nanna eseguita con l’arpa celtica.»

Ha mai pensato a una composizione ancora più asciutta, cioè una partitura dove a emettere il suono sia solo il violoncello?

«Qualche volta in concerto eseguo dei brani cantati solo da Chisciotte, ma lo faccio strategicamente, per far riposare le mie corde vocali.»

Gliel’ho chiesto senza voler mancare di rispetto alla sua bellissima, calda e colorata voce, sia chiaro…

«Oh, ma non si preoccupi…»

La sua scelta artistica è parecchio originale. Si sarebbe potuta accomodare sulla sedia di una delle tante orchestre sinfoniche ed eseguire gli spartiti che aveva studiato al conservatorio. Invece si è messa a cantare la polvere, il buio, l’incapacità di amare, il volo libero dentro le mura di un manicomio con la compagnia di uno strumento ingombrante…

«Ah ma io sono stata tanto tempo seduta in orchestra, ho suonato in duo, in trio, in quartetto, in formazioni da camera. Ho avuto la mia band in Canada, in Toscana, in Francia. Ma da sempre ho scritto e deposto i miei pensieri in un cassetto. Dieci anni fa, dopo trentasei di vita e quindi di carriera, arrivò il momento di fare da sola, trovarmi una strada mia. Era arrivato il mio tempo per far ascoltare chi sono e che cosa sono… fino qua.»

Quali gli autori che formano il suo personale Walhalla?

«Peter Gabriel, potrei finire qui. In realtà ascolto e amo tanti grandi della musica di diversi generi. Steve Wonder, Paolo Conte, Giovanni Luigi da Palestrina, Joni Mitchell, Van Morrison, Ella Fitzgerald, Bach, Brahms, Pastorius, mi fermo. Però se devo sceglierne uno, dico Peter Gabriel.»

Cosa ne pensa e quale il suo rapporto con la musica pop?

«Difficile… la ascolto da sempre, l’ho suonata per anni. I miei primi due dischi, Viaggiare Piano e Angelo 10 e lode, hanno avuto questa impronta. Poi mi sono spostata. Masca vola via e ora Folli folletti sono un’altra cosa, un altro “genere”. Amo la musica cantautorale, un po’ meno il pop. Ma c’è posto per tutti nel nostro sistema, anche nella musica. Le contaminazioni sono indispensabili per come la vedo io, anche quelle con il pop se dosate alla mia maniera.»

Il nostro Paese possiede un patrimonio immenso legato alla sua musica popolare o tradizionale che dir si voglia. Ma non ha mai avuto un etnomusicologo come Alan Lomax che fece la fortuna del folk americano. E così le nostre canzoni continuano a ricevere un’elemosina di attenzione dai mass media. Cosa c’è alla base di tutto questo?

«Forse non ci crediamo abbastanza. Bisogna darsi da fare, conoscere e farsi conoscere, senza scoraggiarsi, senza sosta. Per me il pieno sono i suoni, le belle persone e le belle sensazioni. I mass media a volte non ascoltano nel vero senso della parola. Ma io sono positiva, ascolteranno sempre di più. Bisogna crederci.»

Peppe Servillo, Enrico Rava, Stefano Bollani, Barbara Casini, Franco Fabbrini, Enzo Favata, gli Aires Tango, Danilo Rea. Il catalogo delle sue collaborazioni non finisce qua. Cosa le ha dato l’esperienza con questi artisti?

«Molte cose hanno coinvolto il mio bagaglio emozionale prima di tutto, poi creativo e musicale. Ognuno di questi incontri ha contribuito a formare quella che sono oggi. Una ragazza curiosa del mondo e affamata di umanità. Bel garbo, gentilezza. Quando serve, grinta.»

Molte sue collaborazioni riguardano musicisti della scena jazz. Uno dei massimi pistoni del jazz è l’improvvisazione. Come si è trovata a dialogare con chi esce dalla partitura?

«Con l’improvvisazione sono stata da sempre amica. Mi ritrovo più in quell’ambito che in quello accademico e un po’ rigoroso del mondo classico. Quindi, ben venga.»

Com’è stato lavorare con Le Cirque de Soleil?

«Bello, sono performer molto bravi anche se io non faccio così parte di quel mondo. Cantare il mio numero all’interno di una serata circense non rientra proprio nella mia mentalità. Insomma, se mi è concesso di scegliere prediligo un teatro barocco gremito di persone curiose di emozionarsi alle lacrime per melodie incantate e armonici vibranti puri e cristallini. Nel Cirque c’è tanto di visivo, io sto un po’ di più dalla parte delle orecchie.»

Fin dove vuole farsi condurre dalla musica?

«Se penso ai grandi teatri dico Metropolitan Opera House di New York, ma in realtà io voglio stare bene e ovunque possa cantare e suonare sarebbe il posto giusto. La musica conduce ognuno di noi ovunque. Basta avere coraggio.»