Vladimir Nabokov Invito a una decapitazione
Milano, ADELPHI 2004 Narrativa Straniera | Narrativa
di Luca Meneghel
Passano venticinque anni e nel 1959 Nabokov, nella sua residenza americana, dà il là ad una nuova versione del libro, scegliendo di soppiantare il russo con il più abbordabile inglese: la traduzione del prima versione del libro, ormai più che maggiorenne, viene condotta in stretta collaborazione con il figlio Dmitri ed è un’occasione per rivedere il tutto, rendendo le descrizioni più precise (un’ossessione di questo romanzo breve) e dando maggior spessore psicologico ai personaggi, cercando di entrare con la penna nelle loro anime, un’operazione che “Invitation to a Beheading” dimostra essere pienamente riuscita.
Fondamentale, come preparazione alla lettura, è la prefazione dell’autore: Vladimir sottolinea l’importanza del work in progress della traduzione, un’occasione, come abbiamo precedentemente detto, per rivedere ed ampliare le proprie carte e non solo una “semplice” trasposizione linguistica; Vladimir rigetta inoltre qualsiasi tentativo di accostarlo ad altri autori da parte della critica e del giornalismo, anche se l’ombra di Kafka è mastodontica.
La storia, in sé, è molto semplice: l’autore descrive gli ultimi giorni di prigionia di Cincinnatus C., un condannato alla decapitazione per un crimine orribile, la “turpitudine”, mettendo in scena i personaggi che lo accompagnano in questo terribile lasso di tempo, dal direttore del carcere all’insolito vicino di cella M’sieur Pierre, dalla moglie Marthe alla piccola Emmie, figlia del direttore del carcere, fino a quella conclusione delle vicende che una recensione non deve mai rivelare.
La storia è semplice, ed è la semplicità delle tematiche, seppur drammatiche, che permettono a Nabokov di scrivere un romanzo assurdo, incredibile, all’infuori da qualsiasi logica: alcuni vi hanno visto una metafora dell’assurdità dei totalitarismi, ipotesi minimizzata dallo stesso Nabokov, ma io credo si possa piuttosto leggere fra le righe una metafora dell’assurdità dell’universale, intendendo con “universale” la società, la legge, la mentalità delle persone, la morte stessa.
Cincinnatus, dicevo, è condannato per “turpitudine”, prima assurdità: la condanna a morte giunge per l’incapacità del personaggio di rapportarsi con gli altri, per la difficoltà che gli altri incontrano nel cercare di leggere in lui tutte le righe dell’anima, per un crimine, detto in soldoni, assurdo in un qualsiasi paese democratico (in questo caso la condanna dell’assolutismo, che a Nabokov piaccia o no, è evidente: solo un regime può imputare alle persone la non chiarezza delle loro azioni). Assurda, poi, è la prigione con i suoi personaggi: il direttore che la gestisce come un albergo, tenendo particolarmente alla soddisfazione e alla cura del paziente, il carceriere e il vicino di cella che trattano Cincinnatus come un villeggiante banalizzando la condanna a morte che pende sul suo capo. Assurdo è lo stesso Cincinnatus: arrivati alla fine del libro, provando vestire i suoi panni, il suo comportamento di fronte a morte certa ed imminente è al di fuori degli schemi della razionalità, come lo è il suo aver sempre perdonato le scappatelle della moglie, Marthe, che non cerca troppo di nasconderle al marito e si limita a chiedergli scusa, giustificandole con la propria bontà e con l’incapacità di non tradurre in atto la potenziale felicità umana, arrivando a sistemarsi la giarrettiera di fronte al condannato consorte dopo aver scopato con mezza prigione per ottenere un inutile permesso visita.
L’assurdità tratteggiata da Nabokov, in fondo, è individuale, ognuno vi può leggere quello che vuole, può piangere e sorridere e indignarsi liberamente di fronte al dipanarsi degli eventi facendo correre la propria mente all’idea di totalitarismo piuttosto che di legge assolutamente ingiusta e quasi marziana, di un altro pianeta.
Dietro alle metafore, dietro alle illusioni più o meno colte e ricercate che ognuno può divertirsi a scoprire o, nella maggior parte dei casi, semplicemente a ipotizzare, ci sta una capacità letteraria incredibile, quella di un autore ancora lontano dai virtuosismi con i quali descriverà il movimento della lingua nel cavo orale per pronunciare la parola lo-li-ta, ma un autore con le idee chiare e con una straordinaria capacità di penetrare nel corpo e nelle idee dei personaggi, del suo personaggio, l’immenso Cincinnatus; un autore che descrive nei minimi dettagli l’ambientazione claustrofobica di una prigione tutta particolare, fuori dagli schemi, cercando di creare nella mente dei suoi lettori le stesse immagini, le stesse emozioni, le stesse lacrime che vivono nel personaggio. “Invito a una decapitazione” è in fondo una commistione di grande letteratura e di grandi metafore, di ideali su cui riflettere, resi con tutti i mezzi che la scrittura mette a disposizione, dalla riproduzione del diario di Cincinnatus, al dialogo diretto, alla descrizione diacronica dei pensieri che scorrono nella mente delle persone, tratteggiati così, come sa fare la penna dei grandi, mentre scorrono nella testa senza quel filo logico che Joyce ha scoperto non essere presente nella mente umana.
Un’ulteriore conferma, se ancora ve ne fosse bisogno, della caratura di uno dei più grandi autori del novecento, in Italia non ancora del tutto conosciuto ed in via di pubblicazione presso Adelphi.