Lettera a una professoressa 50 anni dopo

Lettera a una professoressa 50 anni dopo


02/03/2017 - News di Luigi Lusenti

"Lettera ad una professoressa" cinquanta anni dopo.

Scrivere del libro ispirato da Don Milani fra la fine del 1966 e l'inizio del 1967 è come tornare a essere i militanti della nostra gioventù. Perfino l'editore, la "Libreria editrice fiorentina", lo ristampa come un manuale povero, una specie di tazebao sotto forma di libro.

"Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti": comincia così il manifesto anticipatorio del Sessantotto, non solo italiano. Lo scrivono otto ragazzi della scuola della frazione Barbiana del comune di Vicchio, in provincia di Firenze, che diede i natali a Giotto e al Beato Angelico. Un testo semplice, facile, ma per questo più duro di qualsiasi analisi raffinata: "la scuola è di classe e nozionistica, boccia i figli degli operai, dei contadini, delle classi più povere". Don Milani e i suoi ragazzi, perché sia il più accessibile possibile, lo fanno leggere a un contadino che segna tutte le parole che non riesce a capire.

Il libro esce ma non ha un successo immediato. La chiesa lo censura, la sinistra lo ignora. Sono due voci scomode di quegli anni che lo strappano all'oblio:   Pier Paolo Pasolini e Davide Turoldo. Appassionati e ribelli, l'intellettuale comunista e il prete antifascista, ognuno a suo modo eretico nella "casa" ideologica a cui appartengono, ne fanno una bandiera che pochi mesi dopo migliaia di giovani porteranno in manifestazione di fianco alla foto del Che, al libretto rosso di Mao, al Nuovo Catechismo olandese.

Non entro nel merito delle cose scritte nel libro. Può essere tema di un'altra discussione. Qui mi interessa mostrare il valore simbolico di un libretto che arriva al centro del mondo partendo da una sua periferia, e parlando delle persone che da sempre sono "periferia". Il "mondo sbagliato", come definivano una società fondata sulle ingiustizie di classe don Milani e don Borghi, prete operaio nella Firenze degli anni cinquanta, trova in quelle parole un motivo valido e concreto di riscatto. Esprime la sua ribellione attraverso l'accesso alla cultura come fonte primaria di emancipazione. 

"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza": aveva scritto Antonio Gramsci sul primo numero dell'Ordine Nuovo, il primo maggio del 1919.

E Giuseppe Di Vittorio, da misero bracciante diventato il più famoso sindacalista dell'Italia del dopoguerra, diceva: "i poveri devono imparare a leggere per capire cosa c'è scritto sui contratti, se no il padrone li frega". Negli anni difficili della ricostruzione, una generazione uscita distrutta dal conflitto mondiale, aveva un solo sogno, far studiare i figli "perché la cultura è dignità della persona" mi ripeteva mio nonno nato nel 1875.

Oggi invece, si fugge dalla cultura, quasi che studiare crei più guai che vantaggi.  "Con la cultura non si mangia": ha affermato un ministro del nostro governo. E un noto editorialista ha dichiarato, durante una trasmissione dedicata a Fabrizio Corona, "meglio furbi che intelligenti".

Nel dubbio io mi sono riletto "Lettera a una professoressa". Un consiglio, fatelo anche voi.