Popular Problems<small></small>
Rock Internazionale • Songwriting • folk pop

Leonard Cohen Popular Problems

2014 - Columbia

22/09/2014 di Laura Bianchi

#Leonard Cohen#Rock Internazionale#Songwriting



Take your time, ascoltatore; stai per immergerti in trentasei minuti di pura bellezza. Rallenta il tuo ritmo, respira profondamente, e lascia aperto il cuore. Il nuovo capolavoro di Leonard Cohen, Popular problems, chiede un tempo diverso, più ricco e intimo, lento, appunto. E Slow è proprio la prima delle nove tracce dell’album, il tredicesimo in studio e a 47 anni dall’esordio del cantautore cosmopolita, intellettuale zen, poeta raffinato, ebreo errante, nato a Montréal ottant’anni fa. “It’s not because I’m old / It’s not what dying does / I always liked it slow / Slow is in my blood”, precisa Cohen, voce profonda, ironica e tagliente, come a dire: se mi vuoi seguire, ascoltatore, non correre pretendendo di cogliere tutto e subito, ma lasciati condurre da chi sa come essere ultimo, e perciò durare (perfetta, l’ambiguità sul termine - verbo last).

Se lo seguirai, se ti lascerai lentamente conquistare, ancora una volta, dall’universo poetico di un artista epocale, troverai tante domande, qualche risposta, e un canto – inno, da tenere con te come un amuleto, un rosario, un segno concreto e trascendente insieme. Se lo seguirai, lentamente scoprirai una voce che sembra provenire dal centro del corpo, dal centro del mondo, dall’inizio e dalla fine dei tempi; e la voce racconterà di prigionie e liberazioni, di struggimenti e di fughe, di dolore e di salvezza, a volte cogliendo nell’attualità lo spunto per vibrare, a volte raccogliendosi nell’intimo dell’esistenza, altre volte volgendo lo sguardo a un passato mai del tutto trascorso.

Un’opera sfolgorante, nella sua precaria, umana imprecisione; almost è un avverbio molto usato, in Popular problems, ed è proprio l’indefinitezza del quasi uno dei problemi più comuni del nostro essere uomini: But I've had the invitation / That a sinner can't refuse / And it's almost like salvation / It's almost like the blues, canta Cohen in Almost like the blues, come se fosse impossibile cogliere la totalità di sentimenti e sensazioni, eppure riuscire a salvarsi, quasi.

Un’opera apparentemente lineare, quasi semplice, ma che, scoprirai, ha richiesto anni di politura, lavorìo, ricerca, per giungere ad essere tanto essenziale, diretta e misteriosa insieme, sia nella stesura dei testi – poesie, sia nella resa musicale (la collaborazione con Patrick Leonard sembra essere un balsamo per le Old ideas di Cohen); un percorso che riflette l’ispirazione zen dell’artista, minimale senza essere scarna, raffinata, ma senza esibizionismi inutili. Così, in Samson in New Orleans troverai il dolore per la desolazione lasciata dopo l’uragano Katrina, cantata da un Sansone, le cui preghiere sono damn unworthy; in A Street, scritta l’indomani dell’11 settembre 2001, ti turberai con le metafore che descrivono una società in disfacimento, precariamente fondata sull’immagine e sull’omologazione (You looked so good I didn’t care / What side you’re fighting for); in Nevermind ti sorprenderai per l’up-tempo, spinto al funk, che sorregge un’elegia quasi disperata per una guerra che le riassume tutte, mentre la voce di Donna DeLory intona una kirtana, nella quale ti sembrerà di distinguere la parola salaam.

E làsciati attrarre lentamente anche dalle storie piccole dell’uomo Cohen, storie di amori imprecisi, di rimpianti rassegnati: la storia di questi amori sta tutta scritta nelle note e nelle parole di Did I ever love you , in cui la voce struggente di Cohen si scioglie in dubbi senza risposta, o quasi (Did I ever love you / Does it really matter / Did I ever fight you / You don’t need to answer), mentre, in Oh my oh my, una slide che sembra prestata dal conterraneo Neil Young sembra rispondere precariamente, sottolineando una vicenda appena accennata, che è già grande cinema: lui accompagna lei al treno, e la lascia andare, semplicemente, mentre All the boys are waving / Trying to catch your eye, e  qui la differenza fra una canzone banale e un capolavoro sta tutta nei chiaroscuri che Cohen è capace di tratteggiare, rendendo la vicenda enigmatica ed emblematica insieme.

Fra queste storie di carne e sangue, troverai anche lo spirito, in perenne ricerca di un perché, senza darsi requie, ma costruendo ogni volta ipotesi di senso: il Nome di un Dio, della vita, di un’essenza, un Nome scritto a lettere di fuoco (Born in Chains, forse il brano più biblico del disco, gospel laico, sottolineato dai backing vocals di Charlean Carmon); o, forse, un canto, un inno, da sciogliere sempre, nonostante tutto, anche sulla distruzione, perfino sulla morte. Così, troverai l’amuleto proprio alla fine del sentiero, e lo terrai stretto con te: You got me singing, con la sua melodia senza tempo, autenticamente folk, sarà il dono che Cohen ti farà, perché tu lo porti con te sempre, anche quando il mondo per lui finirà, e tu resterai con questa canzone, la sua canzone, la canzone della tua vita: You got me singing / Even tho’ it all went wrong  / You got me singing / The Hallelujah song.

Ascolta lentamente; ti aspetta un’esperienza indimenticabile.

Track List

  • Slow
  • Almost Like The Blues
  • Samson In New Orleans
  • A Street
  • Did I Ever Love You
  • My Oh My
  • Nevermind
  • Born In Chains
  • You Got Me Singing

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