Arrivano dalla Toscana con il loro “marcio fuel” e senza nemmeno porgere un saluto, ti sorprendono con il classico pugno nello stomaco e una strizzata d’occhio canaglia. Sono i J27 con il loro omonimo disco in cui combinano cavalcate di chitarre dal morso ferreo coi muri di granito, voglie di amori dannati e poetici consumati tra cavi e jack roventi come prassi divinatoria e liberatoria verso Dei agnostici e tatuati.
Cantato in italiano senza comprimere la metrica, spontaneo nella fusione con un sound duro e impastato, “J27” suona benissimo, scatena sensazioni di “Great Old Vibes” rare da pescare nell’odierno; un bel marchingegno tosto di suoni postumi, ruspanti e sporchi che si scatena al comando di un vocal leader che giostra una perfetta sintonia di interscambio con la band e in tutte le sfaccettature modulari che i pezzi richiedono.
Registrato al “Syncropain Studio” di Pisa e masterizzato al “Precision Mastering” di Hollywood, il disco è un “inno heavy tricolore” che balza ben oltre il soddisfacente, ma anche uno di quei lavori che purtroppo vengono “emarginati”, spintonati e bistrattati verso i bordi dell’attenzione nostalgica e bollati di “integralista anticaglia borchiata”. Ma ignorando tutte queste menate da nerd studiosi delle nuove tendenze e drogati di programming e led, consiglierei di rifarsi i padiglioni auricolari con la pirite ondulante di “Sento il bisogno”, oppure con il running di fuoco alla Velvet Revolver (“T.v.”), magari toccare con mano il punteruolo glam di “Sono un re” e perché no, lasciarsi tramortire dalla sofferenza dolcemente epica di “Solo lacrime” e sciogliersi come una candela al calore dello sviso eiaculatorio del finale, e poi citando il grande Jannacci spiarli “per vedere di nascosto l’effetto che fa”.
Se uno si imbattesse casualmente in questo disco senza saperne nulla non potrebbe non apprezzarne la grande qualità e fasto che c’è dentro; per quanto mi riguarda, nella mia personalissima chart, è già tra i numerosi numero uno.