Giuseppe Palazzo Piccole forme di quotidianità
2010 - Bluartfactory / Believe
Disco precario di un cantautore a progetto è la definizione che Giuseppe Palazzo, cantautore romano classe ’77, dà del proprio esordio discografico Piccole forme di quotidianità . Nonostante nelle divertenti note biografiche l’autore ami ricordare che il 1977 è anche l’anno dell’omonimo disco dei Clash, il lavoro non ha nulla del punk di protesta di Strummer e soci. O meglio la protesta c’è ma, senza la rabbia del white riot, è sottile, sta nell’ironia, nella vibrante e corale versione di Mio fratello è figlio unico (1976), nel sottolineare la precarietà dell’essere odierno.
Solo quando piove richiama il Silvestri de La Y-10 bordeaux (2000) e de Le cose in comune (1995), per la levigatezza ed il trovare il poetico nei paradossi, il riso dove sarebbe naturale trovare il pianto. Il primo singolo estratto dall’album è Tamagotchi, in cui si racconta di come una persona possa ridursi come il celebre e diabolico trabiccolo (quanti bambini sono andate in crisi alla morte del pulcino?) ed il rapporto di coppia divenire mera meccanica dipendenza. Ma anche qui il tocco sonoro elettro-pop e l’istrionica voce di Giuseppe Palazzo stemperano l’amarezza nell’assurdo, il grigio nel blu. C’è una sola traccia in cui la malinconia viene espressa a pieno, ed è Linguine al surimi, con essenziali arpeggi di chitarra che sembrano creare una dolcissima ninna nanna. Ma basta fare attenzione al testo per realizzare che si affronta il dramma dell’anoressia, di chi non mangia più nonostante piatti con tre grammi d’amore sfumati col vino.
Piccole forme di quotidianità è un buon esordio a cui manca solo una maggiore discontinuità nel mood dei brani per diventare un gioellino, ma fa ben sperare.